04/08/2008, 00.00
RUSSIA
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Solzhenitsyn: il volto della Russia del novecento

di Stefano Caprio
L’autore di Arcipelago Gulag è stato un saggio del Novecento che seppe prevedere le contraddizioni del Terzo Millennio. Il suo ritorno dopo l’esilio, nel 1994, segnò la fine della Russia sovietica assai più della glasnost’ di Gorbacev. Uomo dalla fede molto poco chiesastica, ha lasciato spazio alla partecipazione di ciascuno al suo stesso cammino di conversione, che parte dalla riscoperta della dignità dell’uomo fino alla sottomissione alla rivelazione cristiana nella sua espressione storica.
Mosca (AsiaNews) - Aleksandr Solzhenitsyn era nato poco dopo la rivoluzione d’ottobre, nel dicembre 1918. I novanta anni della sua esistenza hanno incarnato più di qualunque altra personalità il volto della nazione russo-sovietica del XX secolo: più di Lenin, icona della rivoluzione rimasta imbalsamata fino ad oggi in uno stereotipo con cui non si è mai voluto fare veramente i conti. Più di Stalin, l’uomo con cui egli si confrontò con i suoi straordinari romanzi memoriali, il Male Assoluto che indirizzò la sua scelta morale (“vivere senza menzogna”, il suo grande appello) e che in realtà costruì l’impalcatura dello Stato sovietico anche grazie alla Grande Guerra Patriottica, come in Russia viene chiamata, la cui vittoria permise il consolidarsi per altri cinquanta anni di un comunismo reale ancora oggi assai poco compreso. Più di Sakharov, l’altro grande “dissidente” laico di cui Solzhenitsyn era il contraltare “mistico”. Il più grande scrittore russo del Novecento, più dei suoi connazionali Bunin, Pasternak, Sholokov e Brodskij, premi Nobel come lui.
 
Il suo spettacolare ritorno in patria dopo l’esilio, nel 1994, segnò la fine della Russia sovietica assai più della glasnost’ di Gorbacev, così come la sua cacciata di vent’anni prima aveva segnato le sorti della Guerra Fredda, denunciando in modo inequivocabile l’impero del male dell’Arcipelago Gulag. Il materiale da lui raccolto in tutto il paese, grazie all’incredibile favore che il satrapo Khruschev gli aveva concesso per essersi commosso alla lettura di Una giornata di Ivan Denisovic, gli permise di costruire la bomba che iniziò la disgregazione del colosso sovietico, rendendolo di fatto equiparabile all’orrore dell’Olocausto nazista. Il comunismo morì allora, in quel tessuto di umanità resistente anche all’estrema degradazione: se neanche il lager può eliminare la persona umana, l’individuo con tutto il suo complesso mondo di speranze deluse e affetti inattesi, allora nessuna ideologia, neanche la più perfetta e collettiva, potrà mai vincere nel mondo. La Thatcher e Reagan, ma anche Solidarnosc e Papa Wojtyla, vennero dopo di lui. Solzhenitsyn non fu semplicemente il campione dell’anti-comunismo, termine da lui detestato (da giovane era stato un comunista fervente), ma dell’anti-ideologia, del primato della persona su ogni forma di potere.
 
Solzhenitsyn è un maestro antico e moderno, un saggio dell’Ottocento che seppe prevedere le contraddizioni del Terzo Millennio. In questo egli incarna davvero la Grande Russia, questo spazio sconfinato che unisce l’Oriente all’Occidente, incapace di esprimere una propria identità senza porsi perennemente in conflitto con tutto ciò che la circonda. Terra di mezzo, nel tempo e nello spazio, la Russia è la più giovane delle nazioni antiche, e la più conservatrice delle nazioni moderne.
 
Nell’afflato storico dei suoi romanzi, Solzhenitsyn ha saputo ripresentare il genio di Lev Tolstoj, il più grande romanziere di tutti i tempi, che in Guerra e Pace spiegò il mondo uscito dalla bufera napoleonica: dalla Ruota Rossa, il ciclo dei romanzi sulla rivoluzione, all’Arcipelago e agli ultimi lavori sulla convivenza di russi e ebrei (Duecento anni insieme), Solzhenitsyn è stato l’anima del Novecento, con le sue tragedie e le sue contraddizioni. Anche la sua prosa era modernissima e tradizionalista insieme, nella ricerca delle vere radici della lingua russa; le intuizioni asciutte e fulminanti rievocano le vette spirituali di Dostoevskij, al cui cristianesimo “impossibile” si avvicina la conversione in lager dello stesso Solzhenitsyn.
 
La religione è un elemento primario del messaggio di Solzhenitsyn, uomo dalla fede molto poco chiesastica e molto ammirata della semplicità del popolo e del rigore della morale, proprio come Tolstoj, e strettamente legata alla turbinosa esperienza della vita di ciascuno, alla maniera di Dostoevskij. La sua figura profetica e solitaria gli permise di evitare scomuniche e connubi, lasciando lo spazio alla partecipazione di ciascuno al suo stesso cammino di conversione, che parte dalla riscoperta della dignità dell’uomo fino alla sottomissione alla rivelazione cristiana nella sua espressione storica. Che per lui, epigono degli slavofili ottocenteschi, era comunque ortodossa e nazionale, senza alcun cedimento alla retorica ecumenica e alla banalizzazione occidentale del cristianesimo, di cui fu critico implacabile e senza compromessi.
 
Infatti, la fama di Solzhenitsyn è legata essenzialmente alla politica, alla denuncia dei mali dell’Oriente comunista e dell’Occidente capitalista, che alla fine lo hanno entrambi emarginato, come è destino di ogni scomodo profeta. Egli tentò di indicare vie nuove che riscoprissero l’antico: la ricostruzione della Russia sulla base dello zemstvo, del diritto solidale delle comunità locali, è apparsa come una teoria improbabile e romantica, simile alla sobornost dei teologi russi da salotto dell’Ottocento, e allo stesso tempo ha evidenziato la grande necessità di affrontare l’era della globalizzazione senza perdere di vista l’uomo e il suo destino concreto, legato alla terra, alla famiglia e alla cultura, in faccia agli oligarchi spietati e ai funzionari del KGB, suoi nemici storici oggi padroni del paese. A fronte delle illusioni della multiculturalità, il suo ultimo grido disperato ha cercato di rievocare la tumultuosa emigrazione ebrea in Russia, ultima tappa di un esilio millenario prima della ricostruzione dello Stato d’Israele, parabola dello “scontro di civiltà” del tempo in cui viviamo. Come Giovanni Battista nel deserto oltre il Giordano, egli visse tutta la sua esistenza nel freddo dei boschi, prima della Siberia staliniana, poi dell’esilio nel Vermont (Usa), infine del quasi oblio della sua amata Russia.
 
Nessuno come lui ha saputo amare il suo paese, e attraverso di esso il mondo intero, nel secolo breve delle grandi tragedie e delle nefaste ideologie. Sarà difficile dimenticarlo, sarà sempre doloroso riscoprirlo, per accorgersi di essere di nuovo caduti nell’inganno del potere e della menzogna, capace di fagocitare anche chi pensava di opporvisi. Per vivere senza menzogna bisogna saper rinunciare a tutto, come l’uomo del lager, che riscopre il volto di Dio nell’uomo umiliato e nella malattia mortale, ritrovando in questo l’amore alla vita.
 
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