Essere ponte per ebrei e musulmani
di Bernardo Cervellera

Intervista con P. Pierbattista Pizzaballa,  ofm, nuovo Custode di Terrasanta


Roma (AsiaNews) - Avere il coraggio di voltare pagina, di perdonare, di riconciliarsi: questa per padre Pierbattista Pizzaballa, nuovo Custode di Terrasanta, l'unica strada per uscire dalla spirale di odio e di vendette che insanguina da troppo tempo la regione. Parlare, ma anche ascoltare, per farsi perciò ponte sia verso i palestinesi che verso gli israeliani., per promuovere il dialogo interreligioso, che sa offrire contenuti di profezia alla politica. Sono alcuni dei temi dei quali padre Pizzaballa parla nell'intervista con AsiaNews, nella quale evidenzia anche la sua volontà di contribuire a far superare l'immagine di Israele legata all'aspetto militare degli eventi, a favore di quella di una società civile attenta anche alle altre religioni, e di un Islam che non è soltanto terrorismo.

Le prime impressioni dalla nomina in poi.

Il lavoro è tanto. La situazione della Terrasanta non è semplice, ma ho molta fiducia. I miei confratelli e un po' tutti mi hanno espresso simpatia e sostegno. Confido che andrò avanti per quest'opera necessaria.

Come vede la missione dei francescani in Terrasanta?

È una missione di riconciliazione e di ponte. Per i francescani di Terrasanta, la nostra missione del futuro è simile a quella del punto di partenza e cioè l'incontro di san Francesco con il sultano. La nostra missione, oltre che custodire i Luoghi Santi, oltre che animare la vita delle comunità cristiane, è anche quello di essere punto di riferimento, di riconciliazione.

Anzitutto fra noi: noi siamo una comunità internazionale.  Non è facile che un americano viva fianco a fianco con un palestinese. Eppure nelle nostre case succede.

Un altro aspetto è farsi promotori di riconciliazione nell'ambiente in cui viviamo. Io condivido totalmente il messaggio per la Giornata della pace del 2002: "Non c'è pace senza giustizia non c'è giustizia senza perdono". Vivendo in Terrasanta, fra israeliani e palestinesi, ci accorgiamo che è in atto una spirale senza fine di violenze, rivendicazioni, vendette, ritorsioni. L'unica soluzione è avere il coraggio di voltare pagina, di perdonare, di riconciliarsi. Occorre guardare davanti e non chiudersi ognuno nel proprio dolore.

Come attuare questo? Il mondo francescano è legato soprattutto ai cristiani di Terrasanta e questi sono in maggioranza palestinesi…

La nostra storia, è vero, è legata al mondo arabo, ma siamo anche una comunità internazionale. E ci sono anche tanti luoghi santi in Galilea, in zona israeliana. Vi sono francescani che lavorano anche col mondo israeliano, soprattutto in campo culturale. Un esempio: a Jaffa c'è una comunità dove i francescani accolgono israeliani e arabi. Al convento di S. Simeone ed Anna, oltre ad essere responsabile della comunità ebraica di Gerusalemme, ho curato i rapporti con le diverse istituzioni: andare in università a spiegare il cristianesimo, nelle scuole, alle guide turistiche e perfino nelle caserme.

Nelle caserme israeliane?

Il servizio militare in Israele dura tre anni. In questo tempo i soldati non devono solo sparare, come si pensa qui in Italia. Essi devono studiare e conoscere tutte le realtà del paese. Prima di iniziare a visitare chiese e luoghi santi, cercano disperatamente dei cristiani che possano spiegare loro il cristianesimo in  ebraico. Poi vi sono gruppi dell'esercito che fanno corsi di aggiornamento e chiedono esperti cristiani in campo etico…

In occidente spesso trionfa un' immagine di Israele che ammazza e distrugge…

Israele non è soltanto esercito o conflitto, o i carri armati che vanno nei campi profughi. Israele è anche una società civile, che ha problemi come tutti, ma è anche vivace e ricca dal punto di vista culturale. Noi abbiamo il dovere di essere in contatto anche con loro. La nostra internazionalità ci mette in condizione di simpatia e favore verso tutte le altre culture, non solo quelle arabe.

Pensa di riuscire a far parlare israeliani e palestinesi che si fanno guerra da quasi 100 anni?

Il nostro ruolo di religiosi non è entrare in politica. I politici devono tradurre in fatti concreti quello che i religiosi dicono in modo profetico. Noi dobbiamo lavorare soprattutto nel dialogo interreligioso. Certo, in Israele e in Terrasanta non si può distinguere fra religione e società, ma noi dobbiamo limitarci al campo interreligioso, educativo, culturale, stimolando l'opinione pubblica. E, là dove è possibile, stimolare i politici ad incontrarsi.

L'occidente vede nella Terrasanta un luogo di benedizione, ma anche una specie di punto d'origine di tanti problemi che si sono diffusi nel mondo….Un ponte anche con i musulmani?

Il conflitto israele-palestinese non è il punto di origine di tutti i mali. Quello che accade in Terrasanta è la risultante di tanti conflitti e  che esistono nel mondo. Adesso si parla molto di islam e di terrorismo. Proprio per questo pregiudizio, che è generato dalla paura e dalla non conoscenza, l'unica posizione costruttiva è ancora quella di san Francesco. Nel pieno periodo delle crociate, quando il sultano era il nemico per eccellenza, rischiando di essere ucciso, lui è andato a parlare. Questo è difficile: parlare significa anche ascoltare, tentare di capire e questo richiede tempi lunghi. Ma è l'unica via; non vi è altra scelta.

Lei ha ricevuto accoglienza e messaggi da politici israeliani e palestinesi?

Sì ho ricevuto gli auguri e i complimenti da politici di entrambe le parti.

Lei ha una grande esperienza con i cattolici di lingua ebraica. Questi cattolici non hanno vita facile nel mondo israeliano né nel mondo cristiano-palestinese. Pensa ci sia una missione di riconciliazione anche per loro?

Penso che questo non sia ancora possibile. Sono comunità molto piccole e  troppo giovani dal punto di vista ecclesiale. Solo ora, con la nomina del vescovo [mons. Jean Baptiste Gourion - ndr] si stanno strutturando un po' di più. Senz'altro essi sono importanti come futuri interlocutori. Anche nella chiesa, una comunità di tradizione ebraica è fondamentale.

Perché è importante una comunità di lingua e tradizione ebraica?

Dal punto di vista storico e teologico, penso sia importante: la prima comunità cristiana era fatta da persone provenienti dall'ebraismo. Con l'andar del tempo la chiesa ha perduto questa sensibilità verso il mondo ebraico, da cui noi proveniamo. Avere nella chiesa qualcuno che pensa come ebreo, come pensava Gesù, è molto importante anche per la comprensione teologica della bibbia. Un anno fa ho letto insieme a un gruppo di ebrei religiosi il nuovo testamento. Era fantastico: quasi per ogni passo trovavano un parallelo nella letteratura rabbinica. Capivi molto bene il contesto entro cui Gesù ha parlato.

Lei ha detto che i francescani di Terrasanta finora si sono preoccupati troppo di aiutare i cristiani a costruire case, trovare lavoro – magari nel campo del turismo religioso. È finito il tempo dell'assistenzialismo?

La mia esperienza pastorale è stata più insieme a comunità ebraiche che palestinesi. Ma la mia impressione è che in Terrasanta ci si preoccupa troppo di muri, e invece bisogna preoccuparsi dell'evangelizzazione, della formazione, della ri-evangelizzazione (che è molto più difficile). Abbiamo dato molta rilevanza ai luoghi e agli edifici – ed è importante – ma non si vive solo di case e di lavoro; si vive anche di prospettive, di speranze. La vita ha bisogno di senso e non solo di punti fisici di riferimento.

La formazione serve anche a creare un futuro. Invece la gente fugge ed emigra. Ma si emigra non soltanto per la guerra: in fondo in Terrasanta vi è stata sempre tensione… Anche se oggi ve n'è di più. Occorre aiutare a comprendere che essere presente in Terrasanta è una missione.

Lei è un superiore che può parlare in ebraico con i politici israeliani. Quando li incontrerà, cosa dirà loro?

Di tutti i problemi che abbiamo. Ma anzitutto quello dei visti ai religiosi, che è il più urgente. Poi vi sono quelli lasciati in sospeso dalla commissione mista israelo-vaticana, che ho saputo riprenderà gli incontri il mese prossimo. Essi devono ancora trattare i problemi fiscali di riconoscimento giuridico delle chiese, ecc. che prima o poi si chiariranno. L'altro lavoro è per un dialogo più sereno fra le parti, per una comprensione reciproca più profonda.

In questi giorni il card. Kasper è a Gerusalemme per incontrare capi religiosi e politici. Che rapporto c'è fra i vostri due lavori?

Non è la prima volta che il card. Kasper viene in Terrasanta. Viene di frequente e le sue visite sono accolte sempre con molto interesse. Questi suoi incontri sono un incoraggiamento per noi che lavoriamo con musulmani ebrei cristiani sul posto. Talvolta ci si sente soli a Gerusalemme.

Cosa può fare il mondo e i cristiani per la Terrasanta?

Fare nel proprio mondo quello che noi facciamo in Terrasanta: lavorare per la pace, per la comprensione reciproca, vincendo la paura, che è l'ombra della morte. Nelle macro relazioni occorre sottolineare le stesse cose: occorre non fermarsi ai problemi attuali, ai conflitti. Non permettere che siano i conflitti a scrivere la nostra storia. Per fare questo occorre speranza e anche certezza. Io sono cristiano e credo nel Cristo morto e risorto: questa è la mia certezza e il fondamento della mia fede.