A 50 anni dall’indipendenza, ancora un sogno l’“unità” della Malaysia
Kuala Lumpur in festa per l’anniversario dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Il governo pone l’accento sul progresso economico e l’unità della nazione. Ma nel Paese le politiche discriminatorie contro le minoranza etniche e la crescita di un islam conservatore minacciano la crescita, l’armonia sociale e la Costituzione laica. La Conferenza episcopale denuncia “l’erosione dei diritti fondamentali” e invita i cattolici a “promuove il dialogo”.
Kuala Lumpur (AsiaNews) - La Malaysia celebra oggi, alla presenza di dignitari e governanti da tutto il sudest asiatico, il 50° anniversario della sua indipendenza dalla Gran Bretagna. Alla vigilia della ricorrenza, Kuala Lumpur ha voluto sottolineare i grandi successi economici e l’alto grado di sviluppo raggiunto dal Paese, la cui forza – come dichiara lo stesso premier Abdullah Badawi - risiede nella sua unità. Multi-etnica e multi-culturale come poche nazioni nel continente asiatico, la Malaysia non è però ancora riuscita a garantire pari sviluppo e diritti a tutti i suoi cittadini. L’unità sbandierata dal governo sembra più un obiettivo che un traguardo raggiunto, con le folte comunità cinese, indiana e le minoranze religiose ancora discriminate a favore della maggioranza malay, musulmana.
 
Una società multirazziale
La tendenza allarma alcuni analisti. Se le autorità continuano con politiche discriminatorie e di favoritismo e con l’enfasi sul sentimento religioso musulmano come strumento di propaganda per unire la nazione, i prossimi anni non saranno segnati, come i primi 50, da pace e stabilità politica e sviluppo, ma da stagnazione e conflitti sociali.
 
Su 25 milioni di abitanti, i malay musulmani costituiscono il 60% e dominano la vita politica; il 25% è di origine cinese, molto influente nell’economia, mentre il 10% è rappresentato da indiani. I buddisti sono il 19,2%, i cristiani il 9,1% e gli indù il 6,3%. Al momento dell’indipendenza i malay erano i più poveri. Il varo della Nuova politica economica, nel 1971, ha conferito loro privilegi e facilitazioni nell’istruzione, nel campo lavorativo, del business, immobiliare e dell’impiego pubblico.
 
Il dibattito sullo Stato islamico
Le colorate e chiassose manifestazioni, che oggi si sono svolte nella capitale per “l’anniversario d’oro” dell’indipendenza, hanno coperto solo temporaneamente le tensioni che attraversano l’opinione pubblica interna da mesi. L’acceso dibattito è sulla minaccia che un islam sempre più conservatore, propugnato dai tribunali islamici, rappresenta per la democrazia e la Costituzione laica del Paese. A luglio il vicepremier, Najib Razak, ha definito la Malaysia uno Stato islamico; la settimana scorsa il capo della giustizia, Ahmad Fairuz Sheikh Abduk Halim, ha suggerito di cambiare la legge ereditata dalla Gran Bretagna con la sharia. Le dichiarazioni hanno generato la dura condanna e l’apprensione delle comunità di minoranza, aggravata dalla risposta generica di un governo preoccupato di salvare la sua neutralità. “La Malaysia è una nazione, ma non una teocrazia islamica” ha dichiarato il premier il 27 agosto.
 
Il problema è che nel Paese esistono due legislazioni: quella islamica, imposta almeno ufficialmente solo ai musulmani, e quella costituzionale. Ma spesso le due entrano in conflitto: la Costituzione, ad esempio, garantisce la libertà di religione, mentre la legge islamica punisce la conversione dall’islam. Il caso più eclatante è quello di Lina Joy alla quale la Corte federale ha rifiutato di riconoscerne la conversione dall’islam al cristianesimo, rimettendo il suo caso al tribunale islamico che la potrebbe anche condannarla per apostasia. I gruppi di minoranza, inoltre, denunciano la crescente applicazione della legge islamica anche in casi che coinvolgono cittadini di altre religioni.
 
Quello del rispetto della libertà religiosa è uno dei problemi evidenziati anche dalla Conferenza episcopale della Malaysia nel suo messaggio per l’anniversario dell’indipendenza. Nel testo a firma del presidente della Conferenza, mons. Murphy Pakiam, si invita la comunità cattolica a non disperare della “recente erosione dei diritti fondamentali” e a farsi “promotrice del dialogo tra le etnie e dell’armonia interreligiosa”. I vescovi individuano poi nella corruzione, tensioni razziali e aumento del crimine le altre questioni su cui “il governo deve con urgenza intervenire”.