La giunta chiude un monastero che sostiene il movimento democratico
Le autorità hanno fatto sgombrare il monastero Maggin, vicino Yangon, e trasferito i pochi monaci rimasti in una pagoda vicina. L’abate del monastero e diversi bonzi che vi abitavano sono ancora in carcere per aver appoggiato le proteste di fine settembre. Noto attivista denuncia l’ipocrisia dei generali.
Yangon (AsiaNews) – Riprende forme plateali e dure la repressione del regime birmano contro i monaci buddisti, colpevoli di aver guidato le proteste anti-governative di settembre scorso. Le autorità hanno stabilito la chiusura del monastero Maggin, nella cittadina di Thingangyun, vicino Yangon. Ora i due bonzi, 6 novizi e due laici che vi abitavano sono rimasti senza casa. L’agenzia Mizzima News fa sapere che al momento sono stati trasferiti alla pagoda Kaba Aye. Dopo diversi avvertimenti durante la settimana, ieri i militari hanno fatto sgombrare il monastero intorno alle 4 di pomeriggio. “Dopo la chiusura – raccontano testimoni oculari – intorno all’edifico è aumentata la presenza di soldati e sono arrivati anche due camion militari”.
 
Il monastero, spiegano fonti di AsiaNews, è ritenuto vicino alla Lega nazionale per la democrazia (Nld), partito d’opposizione guidato dal Nobel Aung San Suu Kyi, da anni agli arresti domiciliari. Maggin è anche molto conosciuto per l’accoglienza ai malati di Hiv/Aids, che arrivano da Yangon per essere curati. I malati presenti nell’edifico al momento sono stati trasferiti all’ospedale Wai Ba Gi, nella cittadina di North Okklapa, vicino alla ex capitale.
Da settembre i soldati hanno compiuto 4 raid nel monastero. L’abate, U Indaka, ex prigioniero politico, è ancora detenuto in una località sconosciuta. In relazione alle proteste di settembre, anche altri monaci di Maggin sono ancora dietro le sbarre.
 
Citato dal quotidiano The Irrawaddy, l’attivista Bo Kyi, cosegretario del gruppo Assistance Association for Political Prisoners (Burma), evidenzia l’ipocrisia della giunta. Dopo la visita dell’inviato speciale Onu Gambari, i generali “avevano promesso la fine di arresti e repressione, che invece continuano”. “Queste iniziative non contribuiscono a creare un ambiente positivo per la riconciliazione nazionale e la transizione democratica”.
 
Intanto pochi giorni fa la All-Burmese Monks Alliance (ABMA) – la formazione che ha guidato le proteste di settembre – ha chiesto all’organismo statale responsabile del clero buddista nel Paese di impegnarsi per accertare il numero esatto di monaci arrestati o uccisi durante la repressione. Secondo la ABMA, la National Head Monks Association è colpevole di non aver contestato la posizione della giunta, che nega siano mai avvenute violenze. Stando a dati della ABMA, sono oltre 60 i monasteri in cui i soldati hanno compiuto raid picchiando, arrestando e uccidendo molti monaci.