Profughi iracheni: il Natale di Gesù, “l’alternativa alla violenza”
di Marta Allevato
Il periodo natalizio tra le migliaia di famiglie caldee rifugiate a Damasco. Della loro vita precedente hanno perso tutto: lavoro, casa, parenti e amici. Sognano di lasciare la Siria ed essere accettati in “qualsiasi Paese occidentale, perché in Iraq non c’è più posto per noi cristiani”. Intanto aspettano con fiducia, convinti che “c’è una cosa che nessuno potrà mai toglierci: la nostra fede!”. Un appello al Papa e al mondo: “Misericordia per il popolo iracheno!”. Il reportage dell'inviata di AsiaNews.

Damasco (AsiaNews) – Per decine di migliaia di cristiani irakeni profughi in Siria, questo è stato il primo Natale lontano dalla loro terra. Pur avendo perso tutto o quasi in Iraq, non c’è però disperazione nei loro occhi: anche se poveri e con nessuna certezza, finalmente qui si sentono “liberi”. Questo è stato anche il primo Natale “finalmente in pace”, senza bombe o attentati.

La notte del 24 dicembre almeno 1500 rifugiati iracheni affollavano le navate della piccola parrocchia caldea di Santa Teresa a Damasco (nella foto). La nostalgia della loro patria; la preoccupazione per il futuro dei figli; l’angoscia di vedere consumati i risparmi di una vita mentre aspettano da mesi (o anni) il visto per “un qualsiasi Paese occidentale, dover ricostruirsi una vita”: tutto questo riempie i loro cuori, mentre si raccolgono in chiesa, unico luogo dove ancora riescono a “sentirsi a casa”.

Secondo le stime dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), dal 2003 la Siria ha accolto 1,4 milioni di iracheni. Di questi l’80 per cento vive a Damasco. I cristiani sono circa 20mila e i caldei il gruppo più consistente. Stando a dati dell’arcidiocesi caldea di Aleppo, nella capitale e nei villaggi limitrofi si concentrano circa 7mila famiglie. La maggior parte è partita in fretta, spesso dopo l’ultimatum di una delle tante “milizie islamiche” che ai cristiani intimano “conversione o morte”con l’intenzione di appropriarsi di ogni loro avere. “Finalmente dopo anni torniamo a festeggiare il Natale al sicuro – esulta Fadia, una giovane mamma di Baghdad arrivata con la famiglia solo 6 mesi fa – possiamo partecipare alla messa senza temere per la nostra vita, senza controlli e polizia fuori la porta, condividendo la gioia di questo giorno con gli altri cristiani e con tutta la città”.

Entrare a Santa Teresa già un’ora prima dell’inizio della Veglia è quasi impossibile: i fedeli sono accalcati sul sagrato e appena si aprono le porte della chiesa sembrano un fiume in piena che rompe gli argini. La gente riempie ogni angolo, i bambini si assembrano sulle scale e il balconcino del coro e in molti rimangono fuori. Padre Youssef, il giovane parroco, fa addirittura fatica ad attraversare la navata centrale ed arrivare all’altare insieme a diaconi e chierichetti. All’uscita della messa la gente si ferma a parlare in attesa di tornare a casa a mangiare il caratteristico pacha, brodo di interiora di agnello. Negli appartamenti di Jaramana, uno dei quartieri di Damasco dove si concentra l’emigrazione irachena, davanti alla televisione sempre accesa sul canale cristiano Ishtar TV, si seguono le celebrazioni ad Al Qosh, Baghdad, Ankawa. Si confrontano il Natale e il Nuovo Anno che si trascorreva a casa e quelli da rifugiati. “Certo qui non è l’Iraq – si sfoga Oveed, un giovane di 17 anni di Mosul, che a giugno ha visto morire il suo giovane parroco p. Ragheed Ganni – ma almeno non ci sentiamo più prigionieri come nel nostro Paese, siamo liberi e vivi e questo rappresenta un immenso dono”. “In Iraq non c’è più posto per i cristiani”, denuncia secco Assad, che a Baghdad aveva una libreria, distrutta nel 2005 da un attentato in cui lui ha perso una gamba, ma il suo cognato ha perso la vita. Mentre sunniti e sciiti iniziano a rientrare in Iraq, per i cristiani “non vi è ancora una zona sicura”, garantisce Assad, di cui parte della famiglia è ancora in patria. “La situazione è sempre la stessa”, dice Salma, mentre guarda in tv la messa del 25 dicembre celebrata dal card. Emmanuel Delly III alla parrocchia di Sant’Elia a Baghdad Jadida. “Vedi – dice – quanti posti vuoti in chiesa? Prima della guerra, invece, non si riusciva neppure a sedersi se non arrivavi in tempo!”. “Quella che viviamo in Siria non è vita – si lamenta Rita, vedova con due bambini - ma è meglio del terrore che regna in Iraq, aspettiamo solo di poter emigrare altrove e l’unica speranza che ci rimane è la nostra fede!”.

Chi arriva qui, musulmano o cristiano che sia, riesce a portare con sé solo i documenti che provano le cause della sua partenza: certificati di morte di qualche parente stretto ucciso in un attentato; lettere minatorie che parlano di “infedeli da eliminare”; la denuncia di un’attività commerciale distrutta e saccheggiata. Non sanno più niente di ciò che hanno lasciato in Iraq, spesso si perdono notizie perfino di parenti e amici. Quelli che erano ingegneri, chimici, professori o uomini d’affari, a Damasco sono solo dei disoccupati o impiegati in umili lavori sottoretribuiti. Ma “c’è una cosa sola che nessuno può toglierci - spiega Jan, diacono e direttore del coro, tra i pionieri dell’emigrazione irachena a Damasco – la fede: questa è la nostra forza e la nostra speranza”.

E il tempo del Natale sembra davvero ridare gioia e speranza ai loro cuori feriti. In loro alberga una certezza incrollabile, che in questo periodo dell’anno si fa più concreta e visibile. L’arcivescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo spiega: “Il dono che Dio ci fa, l’amore di Suo Figlio tra noi, rappresenta la luce di una speranza, l’alternativa alla violenza, che gli iracheni conoscono e subiscono così da vicino”. “Per noi - spiega Mina, 15 anni di Samarra e già orfana di entrambi i genitori uccisi per la loro fede - il regalo più grande oggi è non essere dimenticati”. Chiede poi di fare un appello “al Papa e al mondo: Abbiate misericordia per il popolo iracheno!”.