Si fa concreto il timore di uno tsunami economico, con l’Asia in prima linea
di Maurizio d’Orlando
La crescita delle “sofferenze” per i subprime americani può bloccare il sistema bancario, impedendone la funzionalità. L’incapacità di erogare prestiti alle imprese, ai consumatori ed alle amministrazioni pubbliche trasmetterebbe la crisi a tutta l’economia.
Milano (AsiaNews) – Sta assumendo contorni concreti il monito che Alan Greenspan, l’ex governatore della Fed, aveva lanciato il 16 dicembre dello scorso anno, parlando per la prima volta di segni iniziali del rischio di stagflazione incombente sull’economia mondiale. La stagflazione, in teoria, dovrebbe essere una contraddizione in termini, perché indica una fase di stagnazione economica associata non ad una diminuzione dei prezzi ma all’inflazione. Si tratta in realtà di un fenomeno non nuovo, dovuto a cause strutturali, che il mondo ha già conosciuto negli anni settanta. Dopo il là di Greenspan, alcuni dei migliori analisti hanno ripreso il concetto di stagflazione, applicandolo non solo agli Stati Uniti, ma in alcuni casi ampliandolo ad altri contesti economici ed in particolare all’Asia.
 
In sintesi, il fenomeno trae origine dalla crescita delle “sofferenze” (gli insoluti) nel settore dei mutui immobiliari statunitensi ad alto rischio (i mutui “subprime”). Ciò genera a catena una crisi d’insolvenza nel comparto delle emissioni obbligazionarie strutturate (CDO’s —Collateralized Debt Obligations e CMO’s — Collateralized Mortgage Obligations). In pratica, con tale termine s’intende il debito cartolarizzato, vale a dire si tratta di giganteschi pacchetti di cartelle ipotecarie messe insieme in uno strumento finanziario che prestigiose banche d’affari (come ad es. Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan ecc.) ed i fondi d’investimento ad alta leva (“hedge funds”) avevano piazzato presso le banche commerciali per valori di giga dollari.
 
Le maggiori società mondiali di valutazione del rischio (ad es. Standard & Poors, Moody’s e Fitch) avevano classificato tali obbligazioni strutturate come AAA, cioè a bassissimo rischio, non solo per il prestigio di chi aveva organizzato le emissioni, ma anche perché nel pacchetto era incluso un meccanismo di tipo assicurativo che faceva ricadere il rischio di insolvenza su terzi. Le obbligazioni erano infatti assicurate mediante dei contratti cosiddetti atipici (CDS – Credit Default Swap) da società finanziarie (come Ambac, MBIA, FGIC, CIFG,SCA, le cosiddette “mono-line”), che vantavano di aver sviluppato dei complessi algoritmi statistici tali da permetter loro di valutare con cura il rischio d’insolvenza del pacchetts  o di cartelle ipotecarie aggregate. Con gli opportuni accantonamenti affermavano perciò di poter far fronte ai “sinistri”, cioè ad eventuali insoluti sui debiti erogati. Poiché le “mono-line” erano esse stesse classificate “tripla A”, anche CDO e CMO, cioè le obbligazioni strutturate, godevano delle stessa valutazione. Le banche commerciali perciò potevano vantare in bilancio di aver investito il proprio attivo in titoli di credito di qualità primaria, quasi moneta corrente, pur essendo in realtà solo pacchetti di cartelle ipotecarie d’ogni genere, di buona e cattiva qualità.
 
Con i primi insoluti ci si è accorti che le maggior parte delle cartelle ipotecarie erano state predisposte, in maniera spesso poco accurata, da piccole agenzie di credito immobiliare che non si assumevano alcuna responsabilità, ma erano remunerate a provvigione. Perciò stesso queste agenzie erano interessate a far volume e non badavano certo alla qualità del credito, vale a dire alla capacità del debitore di onorare i propri impegni. In altri termini i titoli primari vantati dalle banche erano costruiti su una montagna di crediti dubbi, mediamente ben diversi da quelli usualmente erogati direttamente dalle banche.
 
Quando i problemi hanno iniziato ad emergere è risultato subito evidente che il problema era strutturale, vale a dire di come tutta la gigantesca massa di CDO e CMO era stata assemblata. I modelli matematici e stocastici utilizzati dalle “mono-line” erano pertanto inadeguati e per di più le banche commerciali non avevano la minima idea di quali fossero tali algoritmi. In definitiva è stato subito chiaro che le “mono-line”, che avevano assicurato le obbligazioni strutturate, non avrebbero mai potuto onorare i rischi assunti ed erano perciò in stato d’insolvenza tecnica.
 
Nessuno, però, men che meno le banche, aveva interesse a porre le “mono-line” di fronte alle loro responsabilità arrivando ad una resa dei conti. Chieder loro di onorare i CDS significava certificarne l’insolvenza e costringerle al fallimento. In tal caso, però, tutte le obbligazioni strutturate dei portafogli bancari perdevano anche giuridicamente la finzione di essere crediti con copertura assicurativa del rischio d’insolvenza e la “tripla A” avrebbe dovuto perciò essere declassata al livello C, quello dei cosiddetti titoli spazzatura. Per le vigenti regole in materia di bilanci bancari, con tale classifica sarebbe stato necessario accantonare nel fondo rischi e perdite una frazione notevole del valore nominale dei titoli. In tal caso, le perdite delle banche sarebbero esplose molto più di quanto sinora non si sia verificato e quindi sarebbe stato necessario chiedere agli azionisti delle banche non solo di rinunciare ai dividendi, ma anche di sottoscrivere forti aumenti di capitale per evitare il fallimento.
 
Le banche, dunque, hanno preferito sinora non rifarsi sulle “mono-line” e le società di valutazione del rischio (Standard & Poors, Moody’s e Fitch ecc.) hanno attribuito alle “mono-line” solo una piccola riduzione della propria valutazione, da “tripla A” a “doppia A”. Anche l’alternativa di agire direttamente sui mutui sottostanti prendendo possesso degli immobili non si è dimostrata agevole. È stato, infatti, subito chiaro che le banche non avevano minimamente un’idea di quale fosse la composizione dei mutui sottostanti ed anzi che in vari casi non era nemmeno possibile rintracciare le originali cartelle ipotecarie o la necessaria voltura del pegno. Infatti, alcune delle piccole agenzie di credito immobiliare avevano chiuso, altre erano fallite ed in altri casi nel vorticoso interscambio delle obbligazioni strutturate sovrastanti non erano stati individualmente trascritti i pacchetti di ipoteche sottostanti.
 
Finora dunque il sistema bancario e finanziario ha in qualche modo evitato il peggio, nonostante il considerevole volume della massa oscura incombente sui mercati finanziari coinvolti. Alla fine del terzo trimestre del 2007 il totale del valore nominale di tali strumenti denominati in valuta USA, generalmente non quotati ai listini di borsa, era infatti di 6.810 miliardi di dollari. Da qui la stima della UBS di 600 miliardi di dollari, quale possibile costo finale della crisi. A prima vista molti hanno pensato ad una valutazione molto severa, ma a ben vedere la stima della UBS suppone che le perdite si limitino a “solo” il 10 % del valore delle operazioni strutturate denominate in dollari.
 
Anche al livello di perdite previsto dalla UBS è ragionevole supporre che nonostante il brutto incidente il sistema bancario e finanziario possa nel medio termine riprendersi, soprattutto se non vengono intaccati contemporaneamente altri reparti. Ad esempio il valore sottostante espresso dall’insieme dei CDS, inclusi quelli che non riguardano i CDO / CMO garantiti dalle“mono-line”, viene stimato attorno ai 45.000 miliardi di dollari. Il valore di tutti i contratti finanziari non a listino (in inglese OTC, Over The Counter), inclusi i derivati e gli altri strumenti di nuova formulazione raggiunge poi dimensioni da capogiro, 516.407 miliardi di dollari, al 30 giugno 2007, secondo i dati della BRI, la Banca dei regolamenti internazionali (BIS, Bank for International Settlements). Come termine di paragone, l’intero Pil degli Stati Uniti nel 2006 è stato di 13.021 miliardi di dollari, appena un quarantesimo degli OTC. Una falla, vale a dire una serie significativa di insoluti in un compartimento può, dunque davvero provocare una valanga.
 
Queste considerazioni portano alla necessità di un’analisi più approfondita, che rimandiamo ad un prossimo articolo. Per il momento ci limitiamo a riassumere la principale conseguenza dell’insolvenza obbligazionaria: una crisi generalizzata che finisce per colpire tutte le banche commerciali. I movimenti interbancari sono il cuore del sistema e finché non è chiara l’estensione dei danni non è possibile valutare l’affidabilità finanziaria della controparte. Le banche che si ritrovano in portafoglio titoli il cui valore si è drasticamente ridotto a causa delle insolvenze registratesi devono trovare capitale per rientrare nei parametri, già piuttosto blandi, che indicano se i mezzi propri sono disponibili in misura adeguata rispetto agli impegni sottoscritti. Per esse dunque il crollo dei valori cartacei si tramuta in una distruzione di ricchezza monetaria e perdita di liquidità, ma anche e forse soprattutto in una perdita di affidabilità e d’immagine di affidabilità, vale a dire di percezione esterna di fragilità del sistema.
 
Di questo attuale precario stato delle banche il segno più emblematico è la crisi dei mercati interbancari – vale a dire si riduce o viene meno la fiducia che le banche reciprocamente si accordano. La conseguenza più rilevante per l’economia, però, deriva non tanto dalla percezione esterna di fragilità del sistema, ma piuttosto dalla perdita stessa di liquidità delle banche, che è perdita di funzionalità. La conseguenza infatti in questo caso è la drastica riduzione della capacità di svolgere la funzione e la ragione d’essere tipica delle banche, erogare prestiti alle imprese, ai consumatori ed alle amministrazioni pubbliche.
 
Da finanziaria e bancaria, la crisi si trasmette perciò a tutta l’economia e questo genera la stagnazione economica per la caduta non solo dei consumi ma anche dell’offerta di beni e servizi e della capacità di generare reddito da parte delle imprese. Si materializza quindi il rischio che la stagnazione divenga prima una recessione e poi addirittura una depressione come quella del ’29.
 
In un prossimo articolo gli effetti sull’inflazione che comporta l’azione della Fed per fronteggiare la crisi.