A Lhasa i soldati fanno sfilare gli arrestati
Il lama Geshe Gedun Tharchin, fondatore e direttore spirituale dell'Istituto Lamrim di cultura tibetana, ricorda ad AsiaNews il dolore di vivere sotto un dominio straniero che vuole calpestare l’identità locale. Nella capitale tibetana proseguono i controlli porta a porta.
Roma (AsiaNews) – Avere notizie dal Tibet “non è possibile perchè la censura è divenuta strettissima, ma questa è una procedura che subiamo da tempo. Non si può dire con esattezza quanti siano i morti ed i feriti negli scontri degli ultimi giorni: quello che si deve sottolineare è che la protesta nasce dalla legittima richiesta di un popolo, che non accetta il dominio straniero e pretende di salvaguardare la propria identità”. Lo dice ad AsiaNews il lama Geshe Gedun Tharchin, fondatore e direttore spirituale dell'Istituto Lamrim di cultura tibetana oltre che docente all'Istituto di Studi orientali e africani di Roma.
 
Nel frattempo, a Lhasa sembra essere tornata la calma, seppure innaturale. Questa mattina le scuole e gli uffici della capitale sono stati aperti con gli orari normali, ma continuano i controlli capillari di abitazioni e monasteri. A mezzanotte (le 17 italiane) scade l'ultimatum di Pechino per la resa dei ribelli: l’esercito di liberazione popolare ha fatto sfilare per le strade della capitale alcuni camion pieni di detenuti ammanettati. Dietro ognuno c'era un militare cinese, per obbligarli a tenere la testa bassa.
 
Sul fronte internazionale, il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha invitato il governo cinese ad "aprire il dialogo con il Dalai Lama", mentre il governo olandese ha convocato l’ambasciatore cinese per ricordare l’importanza del rispetto dei diritti umani. L’Unione Europea “auspica” una ripresa dei colloqui fra Pechino ed il Dalai Lama, mentre per il governo cinese la colpa delle violenze è da attribuirsi a “terroristi locali”.
 
Le proteste sono nate lo scorso 10 marzo, quando centinaia di persone - divenute con il tempo migliaia – hanno manifestato a Lhasa e in altre località del Tibet per commemorare le vittime della sanguinosa repressione del 1959, attuata dal governo comunista contro la popolazione tibetana che chiedeva il ritorno dell’indipendenza. Durante quelle rivolte, il Dalai Lama - leader spirituale del buddismo tibetano – era stato costretto all’esilio. Secondo il governo tibetano in esilio a Dharamsala, le vittime della repressione sono “centinaia”. Per Pechino, i morti sono 13.
 
Il lama Geshe dice: “Sono 50 anni che la popolazione del Tibet vive sotto il dominio cinese. Io non odio il governo di Pechino, ma vivo in Italia e godo di una libertà incredibile. Tuttavia, il mio sentimento è tibetano: non posso non condividere chi combatte per salvaguardare la nostra cultura. Nel 1948 non c’era neanche un cinese in Tibet, ed oggi i tibetani sono la minoranza. Alcuni tibetani non sono d’accordo con il Dalai Lama, e chiedono l’indipendenza della nostra terra: eppure, basterebbe dare alla popolazione più libertà”.