Di fronte alla crisi economica, si mira a riproporre la moneta mondiale unica
di Maurizio d’Orlando
Mentre si moltiplicano i profeti del catastrofismo, lo squilibrio strutturale dell’economia mondiale dal lato della domanda, del quale ora parlano molte analisi economiche, sta proprio nella compressione artificiale dei consumi interni cinesi.
Milano (AsiaNews) - Dopo il là di Greenspan del dicembre scorso, la maggioranza dei commentatori economici, i pilastri dell’informazione ritenuta “autorevole”, è diventata sempre più catastrofista. Fino ad allora coloro che avevano lanciato l’allarme in relazione al rischio sistemico che gravava sull’economia mondiale erano relegati alla marginalità e bollati come lunatici profeti del finimondo.
 
È ben vero che in questi giorni è un susseguirsi di notizie che preannunciano l’imminente catastrofe: non è solo più la crisi dei mutui, delle “monoline” e delle ingenti perdite di grandi e piccole banche in America, in Europa in Asia, della paralisi dell’interbancario. Quasi di ora in ora le agenzie stampa economiche riferiscono, prima della crisi delle obbligazioni emesse dai comuni e dalle amministrazioni locali statunitensi, alcune delle quali ad imminente rischio d’insolvenza, subito poi, del calo dell’occupazione e così via. L’insolvenza per 16 miliardi di dollari del fondo d’investimento Carlyle Capital (il gruppo cui esso appartiene è uno dei maggiori tra quelli non quotati con all’attivo significativi investimenti industriali nel settore della difesa e delle tecnologie avanzate ed è tradizionalmente legato alla famiglia Bush) è di solo una settimana fa e sembra già solo storia passata. Il dato è (o, meglio era) clamoroso perché implica che anche le obbligazioni emesse da agenzie parastatali sono considerate dal mercato prive o quasi di valore. Infatti, a fronte del suddetto debito la Carlyle Capital ha dato in pegno obbligazioni tripla A per il valore di 22 miliardi di dollari (con un margine a garanzia di quasi il 30%) emesse da due agenzie statunitensi di assicurazione sui mutui ipotecari, la Fannie Mae (Federal National Mortgage Association) e la Freddie Mac (Federal Home Loan Mortgage Corporation).
 
Di lunedì scorso è la notizia del salvataggio-fallimento della Bear Stearns, la quinta maggiore banca d’investimento americana. Anche la storica Lehman Brothers sembra essere ora sotto tiro.
 
AsiaNews non né è un bollettino di borsa né un’agenzia stampa prevalentemente economica. Alcune osservazioni però s’impongono. In primo luogo notiamo la concomitanza tra le vicende economiche e quelle politiche: alla crisi dei mercati finanziari americani vediamo corrispondere prima la derubricazione da parte degli USA della Cina dalla lista dei paesi che non rispettano i diritti umani e poi la modesta reazione alla repressione cinese in Tibet, ma anche le difficoltà militari in Afghanistan ed in Iraq. Crolla il dollaro, che dagli accordi di Bretton Woods del 1944 era il sostituto dell’oro, la valuta di riserva prima dei paesi Nato e poi, dopo la caduta dell’impero sovietico, di tutto il mondo, si sgretola il fragile equilibrio politico mondiale. L’euro, la valuta dell’Unione Europea, però, non è in grado di colmare il vuoto. Per ora almeno, l’euro non riesce a subentrare come pieno e reale sostituto del dollaro nella quotidianità dei listini delle principali materie prime e negli scambi internazionali. Analizzarne qui le ragioni non sarebbe breve e porterebbe troppo fuori dalla nostra ottica. Notiamo solo che la crisi del Kossovo, la dolorosa piaga aperta nel corpo dell’Europa, è il visibile contrappunto politico diplomatico dell’inadeguatezza dell’euro come sostituto del dollaro.
 
La seconda osservazione riguarda la stampa ed i mezzi di comunicazione. Dopo anni di sviolinate dolci e cieche alla globalizzazione ed ai vari potentati finanziari, sotto l’onda d’urto martellante del risuonare di vittime bancarie illustri, anche la grande industria dell’informazione si adegua nell’intonazione dei suoi commenti al coro d’allarme intonato da Greenspan. Non poteva la grande stampa accorgersene prima della gigantesca marea di carta che minaccia di travolgere tutto?
La terza osservazione riguarda i teologi dell’economia, gli economisti. Solo oggi costoro scoprono che il modello di sviluppo della finora osannata globalizzazione è insostenibile. Scoprono, così, ed è vero, che in tale modello è insito uno squilibrio strutturale tra domanda ed offerta aggregata a livello mondiale, che lo squilibrio è intrinseco alle caratteristiche economiche e finanziarie dei maggiori paesi dell’Estremo Oriente e che è speculare allo squilibrio delle grandi economie occidentali. Scoprono ancora, ed anche questo è vero, che lo scompenso è stato reso possibile da istituzioni finanziarie insolventi sia in Cina ed in tutta l’Asia che nei paesi di antica industrializzazione.
  
Per sostenere le istituzioni politiche dominanti, il sistema creditizio asiatico deve coprire le voragini di una gestione interna del credito dominata non da criteri di merito, ma da forme di dirigismo economico solo all’apparenza diverse (le modalità di dominio delle elite giapponesi sono differenti da quelle cinesi). Il modello dirigistico di sviluppo generalmente adottato in Estremo Oriente fa affidamento sul traino delle esportazioni come volano per la crescita economica ed è uno schema che ha le sue lontani basi teoriche nelle concezioni economiche della filosofia nazionalista di Fichte: l’economia deve essere subordinata alle finalità della politica (la grandezza della Nazione in tutti i campi) e, nella fattispecie, alle esigenze dell’unificazione tedesca nell’ottocento. Era il modello applicato prima dal Giappone dall’epoca Meiji sino agli anni settanta ed ottanta del secondo dopoguerra, poi dalla Corea e dalle “Tigri asiatiche” fino al 1998 ed ai giorni nostri dalla Cina. Tale modello è stato coniugato, ci spiegano ora eminenti accademici, con una riedizione del mercantilismo settecentesco dell’Europa nord atlantico. Secondo tali concezioni, la ricchezza delle nazioni, era data non dal benessere della popolazione e dalle strutture produttive in grado di procurare tale benessere, ma dalla quantità d’oro accumulata con le esportazioni. Con gli opportuni aggiornamenti, sono queste, in effetti, le concezioni economiche che hanno guidato lo sviluppo recente della Cina: fissando un tasso di cambio totalmente irrealistico (appena un terzo di quello desumibile dal rapporto con il potere d’acquisto interno della moneta) le autorità cinesi hanno mirato ad accumulare, mediante il surplus delle esportazioni, ricchezza finanziaria espressa non più in oro (come nel settecento) ma in valuta estera, soprattutto dollari e titoli del debito pubblico americano. In tal modo, cioè comprimendo a dismisura i consumi interni, in particolar modo per la popolazione rurale e per i lavoratori migranti, le fasce sociali più emarginate, la dirigenza cinese ha in questi anni ottenuto i mezzi per protrarre il suo dirigismo anche dopo il fallimento del modello economico comunista. Malgrado la grande inefficienza del sistema produttivo, la distorsione nell’uso delle risorse, lo stato semicronico d’insolvenza delle banche, il deterioramento dell’ambiente ed il malessere sociale, proprio grazie alla ricombinazione in chiave turbo capitalista di antiche ricette europee (il protezionismo valutario, il dirigismo ed il mercantilismo), le autorità comuniste cinesi – eredi dello statalismo confuciano - hanno potuto in tal modo sostenere una rapida industrializzazione, anche a scapito del resto del mondo, oltre che ovviamente di una forza lavoro interna emarginata (vale adire semi-schiavizzata) di molte centinaia di milioni di diseredati.
 
Lo squilibrio strutturale dell’economia mondiale dal lato della domanda, secondo molte analisi economiche che sono ora fatte circolare, sta proprio nella compressione artificiale dei consumi interni cinesi. Dal lato dell’offerta lo sbilancio che l’industrializzazione cinese a tappe forzate ha comportato è dato, invece, da un ampliamento della capacità produttiva con tassi d’incremento degli investimenti in capitale fisso (macchinari, capannoni ecc.) senza precedenti, superiori al 30% annuo. Tale capacità produttiva, finalizzata come si è detto all’accumulo di ricchezza finanziaria, è stata strutturata sulle esigenze di debitori insolventi in termini reali ma detentori della moneta di riserva, il dollaro, lo strumento principe di pagamento nelle transazioni internazionali.
 
Anche AsiaNews nel corso degli scorsi quattro anni ha svolto considerazioni simili, seppure con un diverso linguaggio, da una diversa angolatura e con diversa attenzione. La differenza maggiore però è in differente inquadramento storico ed in una diversa analisi delle responsabilità ed è condensata in maniera impercettibile in un corollario giustizialista, solo in apparenza ovvio.
 
Il corollario di queste odierne analisi accademiche è che il sistema finanziario mondiale manca di forme di disciplina tali da correggere il genere di squilibri osservati senza provocare sconvolgimenti di grandi dimensioni. Quello che viene presentato come semplice corollario andrebbe invece ben altrimenti argomentato ed analizzato. In realtà più che un corollario è l’anticipazione di quello che verrà prospettato per uscire dalle rovine dell’imminente cataclisma: togliere agli Stati Uniti ed a qualsiasi altro paese la sovranità monetaria ultima. La soluzione della crisi che sta per esplodere, la panacea alle ricorrenti bolle finanziarie, è già stata da lungo tempo studiata: un’unica moneta mondiale, sviluppata sulla base di un vecchio arnese della Banca per i Regolamenti Internazionali, i Diritti Speciali di Prelievo (in ing. Special Drawing Rights). Il progetto è già in cantiere ed è stato dibattuto in forma criptica finora, per non disturbare il Sovrano, che in democrazia sarebbe il popolo, nei suoi trastulli, i “circenses” mediatici e nel soddisfacimento senza più limiti delle sue lussurie e voluttà alla portata di tutti. Ora però nelle ristrette cappelle dei gruppi di lavoro legati all’Onu, nelle cattedrali del “mundialismo”, nel linguaggio quasi iniziatico di uno dei più grandi sacerdoti della moneta è suonata la campana di fine ricreazione per la Fed, e l’ha suonata proprio Greenspan che aveva permesso la ricreazione, ben sapendo che cosa comportasse. Non chiedere tuttavia per chi suona la campana, essa suona per tutti noi.