Premier tibetano: la Cina ha fatto del Tibet una trappola per distruggerci
di Nirmala Carvalho
Samdhong Rinpoche, primo ministro del governo tibetano in esilio, analizza per AsiaNews le provocazioni del governo cinese e la campagna denigratoria contro il Dalai Lama, tesa a far peggiorare ancora di più la situazione della popolazione tibetana. Un appello alla comunità internazionale: Pechino vi ignora da 30 anni, fate qualcosa prima della distruzione del Tibet.
Dharamsala (AsiaNews) – In questo momento “una campagna di rieducazione politica del Tibet non serve a nulla. Continuare questa campagna denigratoria contro il Dalai Lama ferisce in profondità il popolo tibetano, che davanti a queste provocazioni non riesce a stare calmo e crea le condizioni per essere dipinto come violento. È una trappola”. È il commento sulle nuove politiche tibetane di Pechino rilasciato ad AsiaNews dal primo ministro del governo in esilio, Samdhong Rinpoche.
 
La Cina, spiega il politico, “sa che attaccare il nostro leader farà perdere le staffe alla popolazione. L’emarginazione economica, il disastroso stato della sanità pubblica, la mancanza di scuole adeguate sono situazioni con cui il Tibet ha imparato a convivere: denunciare il Dalai Lama è l’unico modo con cui i comunisti possono provocare i tibetani, facendoli apparire violenti”.
 
È chiaro a tutti, riprende Rinpoche, “che il governo comunista ha uno scudo enorme: quello del mercato internazionale, che lo ripara da tutto. Le ‘pressioni verbali’ della comunità internazionale non creano problemi al regime, che continua con le sue violazioni esattamente come prima. Negli ultimi 30 anni, la Cina ha dimostrato di non tenere in alcun conto le opinioni della comunità internazionale, ed il mondo lo sa”.
 
Proprio per questo, il governo tibetano in esilio ha pubblicato un appello urgente alla comunità internazionale, che deve intraprendere misure immediate ed efficaci per fermare la repressione brutale della popolazione tibetana ed interrompere il genocidio culturale del Tibet operato da Pechino. 
 
Riportiamo di seguito il testo completo dell’appello (traduzione a cura di AsiaNews):
 
Dal 10 marzo 2008, vi sono state numerose proteste nelle province tibetane di U-Tsang, Kham e Amdo, così come in molte delle città cinesi in cui vivono dei tibetani. Queste proteste derivano dall’insoddisfazione e dal risentimento profondo provocato dalla repressione eccessiva operata contro alcuni monaci che, nel Tibet, celebravano il 10 maggio.
 
Questa è una data storica per la popolazione tibetana [che ricorda l’insurrezione anti-cinese del 1959, conclusa con un bagno di sangue e l’esilio del Dalai Lama ndr]. Ogni anno si celebrano delle manifestazioni pacifiche, che finiscono il giorno stesso. Questo anno le proteste sono continuate, per manifestare contro l’uso non necessario di misure repressive e violente. Se il vero obiettivo delle autorità cinesi era quello di mantenere la pace e l’ordine in Tibet, avrebbero potuto raggiungerlo in poche ore. Ma la normalità non è tornata neanche dopo cinque settimane, ed ogni giorno che passa continuano proteste e repressioni.
 
Questo fa venire dei sospetti sulle vere intenzioni delle autorità cinesi. Fra gli altri, si sono verificati alcuni episodi molto dubbi:
 
a)      Il 14 marzo le autorità di Lhasa hanno permesso molte ore di scontri, senza intervenire in alcun modo.
 
b)      Molti di coloro che erano coinvolti in quegli scontri erano degli sconosciuti alla popolazione locale. In particolare, alcuni testimoni dicono di aver visto poliziotti cinesi vestiti da monaci che guidavano le proteste.
 
 
c)      Le autorità cinesi hanno dichiarato di aver trovato pistole e proiettili all’interno di alcuni monasteri buddisti. Queste accuse si basano sul ritrovamento di spade finte e pistole fatte in casa: le offerte agli dei che proteggono i monasteri, i Gonkhang. In altri casi, sono stati gli stessi soldati a lasciare le armi nei monasteri, per poi dichiarare di averli “scoperti”.
 
 
d)      Senza alcuna prova, le autorità cinesi accusano le “forze indipendentiste del Tibet” di voler lanciare degli attacchi suicidi, ed hanno denunciato alcuni monaci per aver fatto esplodere una bomba che ha danneggiato un edificio di Chamdo, nel Tibet orientale. Anche questa accusa non è stata sostenuta da alcuna prova.
 
 
e)      Il governo ha lanciato una campagna di rieducazione, imponendo a monasteri e case private di esporre la bandiera cinese [fino ad oggi era permesso ai luoghi di culto di non esporre alcun simbolo politico ndr]. Nel contempo, viene portata avanti una campagna di offese al Dalai Lama tesa a provocare la popolazione.
 
 
f)        La Repubblica popolare cinese sta cercando di creare uno scontro fra la popolazione tibetana e quella cinese, facendo riferimento alla “cricca del Dalai” per istigare chi non ci conosce.
 
Queste azioni non aiutano a ristabilire la pace e l’ordine in Tibet. Al contrario, vengono considerate altamente provocatorie dalla popolazione, che ne viene colpita in profondità. Questi avvenimenti sembrano invece indirizzati alla distruzione della tolleranza dei tibetani, che vengono provocati a reagire in maniera violenta. Siamo molto preoccupati dalla repressione, che continua con pestaggi, torture, omicidi, privazioni di cibo ed acqua: tutte cose che condurranno alla disperazione i tibetani. Abbiamo paura che questa situazione continui per molti altri mesi.
 
Inoltre, il Tibet è stato isolato dal resto del mondo. A breve, i cinesi distruggeranno ogni prova, condannando tibetani innocenti per cose che non hanno fatto nulla. La comunità internazionale deve intervenire immediatamente per convincere la Cina a fermare queste atrocità. La leadership comunista chiede al Dalai Lama di usare la sua influenza per riportare la normalità, ma non consente la creazione di alcun canale che possa portare la voce del nostro leader in Tibet.
 
Pechino si rifiuta di capire le cause del profondo malcontento del Tibet, e non cerca di risolverle. Al contrario, aggravano la situazione con tutte queste procedure. Questo è un messaggio chiaro: la Cina non vuole un Tibet pacifico e stabile.