Abusi, manette e usura per i profughi birmani in Malaysia
Una fonte di AsiaNews ha visitato un “centro di accoglienza” per rifugiati e ne ha descritto gli orrori. Oltre cento persone stipate in una stanza senza coperte per dormire. Donne denudate e umiliate. Lo spaccio del campo applica prezzi da usurai. Uno strozzino che "sa tutto di tutti".

Yangon (AsiaNews) – Rinchiusi e ammanettati in un campo di accoglienza in un’area sperduta della Malaysia, il cui aspetto è del tutto simile a un carcere; familiari e amici in visita schedati e perquisiti; usurai che lucrano sulla loro sorte; abusi verso le donne, costrette dai carcerieri a denudarsi e subire umiliazioni. È la condizione di centinai di profughi birmani detenuti in un “centro di accoglienza”. Essi hanno abbandonato il Paese d’origine per sfuggire ai soprusi della dittatura militare: privi di documenti, vengono trattati alla stregua di prigionieri, stipati in stanze che ospitano più di 100 persone e privati dei diritti umani di base. Una fonte di AsiaNews – che lavora per una Ong a contatto con i rifugiati – ha varcato le soglie della campo e ha descritto l’orrore al quale ha assistito.

“Per raggiungere il campo profughi – racconta la fonte, anonima per motivi di sicurezza – abbiamo percorso un tragitto di quattro ore in auto, perché non esistono mezzi di trasporto pubblici collegati. Prima di entrare hanno schedato i nomi e requisito i telefoni cellulari”. Completata la fase di registrazione si passa alla perquisizione “corporea”, durante la quale un ufficiale donna controlla anche le parti intime del corpo. Espletate le formalità, bisogna infine “comunicare il nome delle persone che si desidera incontrare, segnalandone il nome, il sesso e la matricola”. La volontaria riferisce di aver aspettato “oltre mezzora” prima di poter incontrare i profughi. Durante l’attesa ha assistito a scene che descrivono l’atmosfera che si respira nel campo: “Ho visto un gruppo di detenute – racconta – e una di loro era ammanettata. Non riuscivo a capire perché fosse necessario mettere le manette ai polsi. Non ha alcuna possibilità di fuggire, il centro è così isolato. Tutto questo non ha senso. Non è una criminale e non merita un simile trattamento, dato che la sua unica colpa è di non possedere un documento di identità”.

Anche il colloquio viene effettuato secondo procedure che richiamano il regime di detenzione carceraria: si utilizza un telefono, un vetro separa l’ospite in visita dal profugo rinchiuso nel centro, il tempo massimo consentito è di 15 minuti. “Se si vuole fornire qualche genere di conforto – prosegue – esso va acquistato nel dispaccio all’interno del campo. I prezzi sono altissimi, ma non si può fare altrimenti perché è vietato introdurre oggetti dall’esterno. Alle mie rimostranze, il proprietario del negozio ha replicato che deve pagare l’affitto alle autorità e per guadagnare deve applicare un grande ricarico alle merci”.

Nel centro vi è uno strozzino che procura biglietti aerei con un prezzo che varia a seconda dell’etnia di provenienza del detenuto: “Birmano o vietnamita, il prezzo cambia e mentre lo riferisce si mette a ridere. Egli – rivela la fonte – è al corrente di tutte le vicende del luogo, è persino in grado di stabilire da quanto tempo un profugo è ospite del centro. Egli sembra conoscere tutti, dagli ufficiali ai detenuti”. “Quando gli ho rinfacciato i prezzi eccessivi,  mi ha avvertito di non fare alcun commento, perché a pagarne le conseguenze sarebbero stati i detenuti”.

Dai racconti dei profughi emerge infine uno spaccato terribile delle regole del carcere: le donne sono costrette a “denudarsi e stare accovacciate”, vengono “umiliate e offese” e, come i maschi, girano con il petto scoperto “non potendo indossare il reggiseno”. “Vi sono oltre 100 persone per ogni stanza e non tutte hanno a disposizione una coperta per dormire. È questo un trattamento da riservare a dei profughi, la cui unica colpa è quella di aver abbandonato le miserie del proprio Paese e non possedere un documento di identità?”.

La fonte lancia infine un appello perché la tragedia dei profughi non venga dimenticata: “A quanti lavorano – conclude la volontaria – dico di perseverare nello scopo, perché anche il più piccolo gesto può essere significativo. E chi non ha fatto ancora nulla, si armi di coraggio e si unisca nella lotta. Continuiamo a portare un barlume di speranza nella loro vita”.(DS)