India, attivisti per i diritti umani chiedono la scarcerazione di Aung San Suu Kyi
di Nirmala Carvalho
Conclusa la seconda giornata del processo a carico della leader dell’opposizione, mentre si moltiplicano gli appelli a favore della sua liberazione. Attivista cristiano solleva la “questione morale” dei governi che promuovono la democrazia e fanno affari con la giunta birmana. L’Asean “preoccupato” per la sorte della “Signora”, ma esclude sanzioni economiche.
New Delhi (AsiaNews) – Attivisti per i diritti umani, Nobel per la pace e leader religiosi indiani si appellano alla comunità internazionale perché ottenga la scarcerazione di Aung San Suu Kyi, arrestata per aver violato i termini dei domiciliari. I leader dei Paesi dell’Asean sono “seriamente preoccupati” per la sorte della “Signora”, ma escludono sanzioni economiche verso la giunta. Oggi, in una Yangon blindata, si è tenuta la seconda udienza – sempre a porte chiuse – del processo; la terza udienza si terrà domani, 20 maggio.  
 
Lenin Raghuvanshi, attivista indiano e direttore del Comitato di vigilanza popolare per i diritti umani (Pvchr) spiega che l’arresto della leader dell’opposizione birmana avrà “serie ripercussioni per il movimento democratico in Myanmar” ed è una “palese violazione” dei diritti umani. Egli invita “Cina, India e i Paesi confinanti con il Myanmar a opporsi alla dittatura dei militari” e a “sostenere il movimento pacifico di lotta per la democrazia”. “È essenziale – sottolinea Lenin Raghuvanshi – per la regione sradicare il clima di terrore perpetrato dai militari” e solleva una “questione morale” legata alle nazioni che “da una parte sostengono in maniera tacita la giunta e dall’altra si oppongono al terrorismo”. L’attivista, premio Gwanju per i diritti umani nel 2007, aggiunge che il vincitore dell’edizione 2009 è il dissidente birmano Min Ko Naing, per “la sua lotta per la democrazia in Myanmar” e si augura che “egli e gli oltre 2100 prigionieri politici nelle carceri del Myanmar vengano presto rilasciati”.
 
Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), lancia un appello al governo dell’India perchè “condanni l’arresto di Aung San Suu Kyi” e ne chieda “il rilascio immediato”. L’attivista cristiano giudica un “esercizio di opportunismo” il pretesto alla base del fermo della “Signora” e auspica che possa festeggiare il suo compleanno, il 19 giugno, da “libera cittadina del Myanmar”. Per questo, sottolinea il presidente del Gcic, è necessario che “il governo indiano e la comunità internazionale” esercitino pressioni sulla dittatura; India, Cina e i Paesi dell’area hanno avviato stretti rapporti commerciali con il Myanmar, incuranti dei diritti umani e della repressione operata dal regime verso i cittadini, ridotti sempre più alla fame.
 
P. Anthony, sacerdote gesuita della Provincia di Madurai nel Tamil Nadu, è nato e ha vissuto per 10 anni nella ex-Birmania. Egli spiega che l’arresto serve a rafforzare l’idea di “assolutismo” della giunta militare, che controlla la popolazione “con il pugno di ferro: le persone possono essere arrestate in maniera arbitraria, rinchiuse e torturate”. P. Anthony sottolinea che non esiste “libertà di movimento” ed è diffusa “la pratica di torturare dissidenti od oppositori politici”. Il gesuita teme che “Aung San Suu Kyi non verrà mai rilasciata” finché “morirà o vi sarà un intervento delle potenze mondiali che eserciteranno una pressione tale da costringere la giunta a liberarla”.
 
I membri dell’Asean – l’associazione dei Paesi del Sud-est asiatico, fra i quali vi è anche il Myanmar – hanno diffuso la prima nota ufficiale sull’arresto di Aung San Suu Kyi. Essi si dicono “seriamente preoccupati”, chiedono cure mediche adeguate per la leader dell’opposizione e aggiungono che sono in gioco “onore e credibilità” del governo birmano. La Thailandia, presidente di turno dell’Asean, esclude però qualsiasi ipotesi di sanzioni a carico del regime militare. La comunità internazionale, con l’Unione Europea in prima fila, chiede un intervento della Cina, primo partner commerciale del Myanmar, per ottenere la liberazione della donna. Un intervento che pare poco probabile, visto che Pechino ha sempre ribadito di non interferire negli “affari interni” degli altri Paesi. Ieri nove Nobel per la pace – fra i quali l’arcivescovo Desmond Tut, Shirin Ebadi e Rigoberta Menchu Tum – hanno bollato come “una presa in giro” il processo e chiedono al segretario generale Onu Ban Ki-moon di discutere la questione in seno al Consiglio di sicurezza “il prima possibile”.