Esuli tibetani: lo Xinjiang oggi, come il Tibet un anno fa
di Nirmala Carvalho
Gruppi di tibetani in esilio evidenziano analogie tra quanto accade oggi nello Xinjiang e la repressione in Tibet dopo le proteste del marzo 2008. Il timore è che ci siano sparizioni, condanne a morte e all’ergastolo, una costante legge marziale di fatto.

Dharamsala (AsiaNews) – Solidarietà dai tibetani in esilio agli uighuri, per i tragici eventi di questi giorni con la polizia che spara sulla folla che protesta nella capitale Urumqi e causa centinaia di morti e un numero imprecisato di feriti. Una calma irreale è ora mantenuta da oltre 20mila soldati che presidiano la città. Il governo ha aggiornato ieri sera il bilancio degli scontri fra uiguri e polizia e fra uiguri e cinesi han. Secondo Pechino i morti sono 184 (da 156) , di cui 137 sono cinesi; i feriti più di mille. Ma secondo esuli uiguri vi sono migliaia di vittime uiguri.

Cinque tra i maggiori gruppi di esuli tibetani hanno chiesto a Pechino di rilasciare chi è stato arrestato per avere protestato in modo pacifico, di ripristinare le comunicazioni internet e telefoniche con Urumqi, di consentire l’ingresso ai media, di cessare la campagna di propaganda che vuole colpevolizzare i manifestanti ma favorisce nuove violenze, di permettere un’indagine indipendente delle Nazioni Unite.

I gruppi notano come Pechino gestisca la situazione con le stesse modalità impiegate per le pacifiche proteste del marzo 2008 in Tibet. Allora come ora, le autorità cinesi hanno: controllato in modo stretto i media esteri, tagliato le comunicazioni via internet e telefoni cellulari per impedire qualsiasi diffusione di notizie diverse da quelle ufficiali, operati continui raid notturni con l’arresto di centinaia di persone solo perché trovate in giro, inondato la televisione con immagini e dichiarazioni che mostrano solamente proteste violente per conflitti etnici. Inoltre, in entrambi i casi la responsabilità delle proteste è stata imputata, senza alcuna prova, a “forze estere ostili”: con riferimento alla leader in esilio Rebiya Kadeer e al Congresso mondiale Uighuri, mentre per il Tibet è stato accusato il Dalai Lama.

Rebiya Kadeer, facoltosa imprenditrice, è stata in carcere per anni per la sua lotta per la libertà degli Uighuri. Rilasciata per ragioni mediche, ora vive in esilio.

Ngawang Woeber, portavoce dell’iniziativa, ha rilanciato “l’urgente appello di Rebiya Kadeer per la pace, la giustizia e la fine delle violenze e il suo appello al governo cinese perché cessi la brutale persecuzione contro gli uighuri nell’intero Turkestan orientale” (lo Xinjiang cinese). Egli ricorda come il presidente Hu Jintao abbia lasciato in fretta il vertice G8, in corso in Italia, “per evitare di affrontare i media internazionali e impantanarsi su domande sul fallimento della politica cinese nel Turkestan orientale, come pure in Tibet”.

I gruppi ricordano che gli uighuri e i tibetani non hanno accettato la dominazione cinese, nonostante duri da oltre 50 anni, e continuano a chiedere libertà essenziali e diritti umani. In questa situazione, la politica cinese mina la stabilità sociale: in Tibet, 16 mesi dopo la sanguinosa repressione delle proteste, vige ancora una legge marziale di fatto, con oltre 1.000 persone arrestate il cui destino è ignoto. Nelle proteste tibetane ci sono stati circa 200 morti e centinaia di arrestati, almeno 5 dei quali sono poi stati condannati a morte. Il timore dei tibetani è che nello Xinjiang avvengano ora “sparizioni” e pestaggi dei dimostranti arrestati e dure condanne. Per evitarlo, chiedono un intervento della comunità internazionale.