Pechino esce allo scoperto: “Sceglieremo noi il prossimo Dalai Lama”
Il governatore del Tibet fuga ogni dubbio: la prossima reincarnazione del capo del buddismo tibetano dovrà avere l’approvazione del governo cinese, come avviene per i vescovi cattolici. Intanto il ministro degli Esteri di Pechino difende l’esecutivo: “Non siamo arroganti, pensiamo al bene nazionale”.
 Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Il governo cinese ha dichiarato che “non negozierà” sulla selezione del successore dell’attuale Dalai Lama, sostenendo che la decisione finale sulla scelta della reincarnazione dei Buddha viventi “spetta al potere politico”. Lo ha detto il governatore della Regione autonoma tibetana, Padma Choling, secondo il quale “non c’è alcun bisogno di discutere sulla reincarnazione del Dalai Lama”.
 
La successione del “dio-re” del Tibet è divenuta con il tempo una delle questioni principali della Regione. L’attuale XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, inizia infatti ad invecchiare; la sua dipartita, e il conseguente vuoto di potere al vertice del governo tibetano in esilio e fra i buddisti cinesi, preoccupano sia Dharamsala (sede del governo in esilio) che Pechino.
 
Alcuni fra i tibetani più vigorosi temono che la scomparsa del loro leader produrrà un indebolimento del movimento tibetano, che inizierà con moti di violenza simili a quelli anti-cinesi esplosi nel marzo del 2008. Per evitare tutto questo, lo stesso Dalai Lama ha più volte affrontato il tema della sua successione.
 
Secondo il Nobel per la pace, la sua reincarnazione “potrebbe nascere fuori dal Tibet e addirittura essere una donna”. Un’altra ipotesi prevede l’elezione diretta del successore o un referendum per l’abolizione del potere politico connesso con la figura spirituale.
 
Qiangba Puncog, presidente del Congresso del popolo tibetano, ha sottolineato invece che la reincarnazione “dovrà superare i requisiti richiesti dalla tradizione: rituali religiosi, convenzioni storiche, l’urna dorata del tempio del Budhha Sakyamuni. Ma soprattutto dovrà avere l’approvazione del governo centrale”.
 
Un po' come avviene per tutte le religioni ufficiali, Pechino (un governo ateo) si arroga il diritto di intervenire in questioni religiose (come ad esempio, la nomina dei vescovi cattolici cinesi). Sulla questione  Tibet il governo ha da tempo il coltello dalla parte del manico. Avendo rapito il vero Panchen Lama, numero due del buddismo tibetano, spera di poter manipolare anche la successione per il Dalai Lama.
 
Con lo stesso atteggiamento, il ministro cinese degli Esteri Yang Jiechi ha difeso "l’arroganza" con cui la Cina tratta le questioni di politica estera; secondo il ministro, infatti, “Pechino non fa altro che usare il suo sempre maggior potere per proteggere gli interessi centrali della nazione”. Per quanto riguarda la tensione con gli Stati Uniti, Yang ha definito Washington “responsabile” per la crisi bilaterale.
 
Parlando a margine dell’Assemblea nazionale del popolo in corso nella capitale, il ministro ha sottolineato: “Difendere gli interessi e la dignità nazionale non vuol dire essere arroganti, anzi è completamente diverso. Lo scopo della nostra diplomazia è quello di salvaguardare la sovranità nazionale, la sicurezza e lo sviluppo. Se questo viene considerato arroganza, allora dov’è la giustizia?”.