Pechino promette di difendere libertà religiosa e diritti umani:“parole al vento”
Presentato il secondo Piano di azione nazionale per i diritti umani, dove si ammette: “Ci vorrà ancora molto prima che il popolo possa goderne”. Sulla carta sono tutelate libertà religiosa e di espressione, ma un esperto commenta ad AsiaNews: “Come sempre, parole vuote e senza contenuto. Spendono soldi e fatica soltanto per controllare le religioni, non certo per aiutarle”.

Pechino (AsiaNews) - Il governo comunista cinese ha annunciato in maniera formale che "ci vuole ancora molto tempo prima di poter permettere a tutta la popolazione di godere dei diritti umani". L'ammissione è contenuta nel secondo Piano di azione nazionale per i diritti umani presentato dall'esecutivo, che prevede le linee guida sull'argomento per gli anni che vanno dal 2012 al 2015. E un esperto commenta ad AsiaNews: "Parole vuote, come al solito. Sulla carta sono bravissimi, è nei fatti che dimostrano la loro vera natura".

Il testo è la base formale sulla quale dissidenti, attivisti e fedeli di tutte le religioni possono fare ricorso al potere giudiziario contro le decisioni dei dirigenti comunisti locali. Il Piano segue quello presentato nel 2009, che non diede alcun miglioramento formale alla situazione dei diritti umani e religiosi nel Paese. Diversi esperti sostengono che sia "irrealistico" pensare che questa seconda edizione possa portare delle novità alla situazione all'interno del Paese o del Tibet, dove i diritti della popolazione vengono violati in maniera ripetuta.

L'esempio del Tibet è illuminante: dal 2008, anno in cui si verificarono gli scontri di Lhasa fra la popolazione e le autorità comuniste, il governo tibetano ha ordinato l'arresto di circa 7mila attivisti politici: di questi oggi non si sa nulla, anche se alcuni vengono rilasciati di tanto in tanto. Secondo il Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, il 2009 - anno in cui si è scatenata la repressione ufficiale ed è stato pubblicato il primo Piano di azione - è stato l'anno peggiore in assoluto per il Tibet.

Ora il Piano prevede degli aiuti di Stato per le religioni, garantisce la libertà di espressione e di culto e promette addirittura dei finanziamenti per la ricostruzione dei luoghi di culto distrutti da cataclismi naturali o in stato di abbandono. Ma questi fondi sono destinati soltanto all'islam cinese - l'islam hui e non quello uighuro, che il governo teme - e al buddismo.

Il dottor Anthony Lam Sui-ky, ricercatore all'Holy Spirit Study Centre della diocesi di Hong Kong e grande esperto della Chiesa in Cina, spiega ad AsiaNews che queste dichiarazioni "sono senza senso. Sulla carta, i dirigenti cinesi parlano sempre in maniera perfetta. Ma in realtà i governi locali fanno quello che vogliono. Non importa cosa scrivano sulle carte ufficiali: la popolazione non ha vero accesso alla libertà religiosa o ai diritti umani".

Per quanto riguarda i finanziamenti alle religioni, il dottor Lam aggiunge: "In alcune aree - come il ricco Guangdong meridionale, ad esempio - il governo sostiene alcune chiese: in alcuni casi hanno dato dei fondi per alcuni piccoli lavori di ristrutturazione. Ma la verità è che il governo vorrebbe controllare la Chiesa, e spende molto denaro per provarci: soldi per la sicurezza e per il controllo del clero e dei fedeli".