Da Sarajevo un no alla violenza in nome di Dio, imparando dalla testimonianza dei martiri
di Bernardo Cervellera
Al Convegno internazionale di Oasis, il card. Alencherry spinge i cristiani a fare il primo passo nel dialogo. La testimonianza del card. Puljic durante l'assedio di Sarajevo. Le guerre "religiose" utilizzate dai media, dai politici, dai commercianti di armi. Gli esempi di Nigeria e Egitto. I martiri cristiani spingono le altre religioni a separarsi dalla violenza.

Sarajevo (AsiaNews) - All'incontro internazionale di Oasis di Sarajevo sul tema "La tentazione della violenza. Le religioni fra guerra e riconciliazione" non ci sono radicali conclusioni, se non quelle suggerite dal card. George Alencherry, arcivescovo maggiore di Ernakulam dei siro-malabaresi.  A partire dalla sua esperienza in India - dove il fondamentalismo indù minaccia musulmani e cristiani - sottolinea e ripete diverse volte che "il dialogo è l'unica via" e che i cattolici, sostenuti dall'insegnamento del Concilio Vaticano II, devono essere i primi ad aprirlo, costruendo un contesto e una piattaforma da cui partire.

Un esempio di ciò è risuonato nella commovente testimonianza del card. Vinko Puljic, che durante l'assedio di Sarajevo (1992-1995), anche col rischio delle bombe, ha continuato a incontrare i responsabili delle religioni islamica, ebraica e cristiano-ortodossa, ad aiutare chiunque avesse bisogno di cibo, acqua e riparo - a qualunque confessione appartenesse, invitando gli altri capi religiosi a farsi promotori nel mondo di una vera informazione sulla guerra in Bosnia Erzegovina. "Si faceva ricadere la responsabilità di quanto avvenuto - ha detto - ai contrasti tra le diverse religioni, scaricando su di esse la responsabilità politica degli scontri", invece di attribuirli alle mire di potere dei politici, al nazionalismo esclusivo, alle alleanze regionali e internazionali, ai commercianti di armi. Durante la guerra di Bosnia, ha ricordato il porporato, si sono provate nuove armi all'uranio impoverito, che oggi sono la causa di tante morti per cancro.

"L'odio connaturale alla guerra", ha aggiunto il card. Puljic, "veniva sfruttato in primo luogo dai media".  Quello dei media e la loro funzione è un altro filone su cui si è lavorato nel convegno, perché è stato evidente a tutti come essi siano spesso troppo superficiali e sommari, riducendo tutte le tensioni a guerre interreligiose.

E' il caso della Nigeria, come descritto dal vescovo di Sokoto, mons. Matthew Kukah, dove il fondamentalismo di Boko Haram viene descritto contrario al "governo cristiano" di Lagos, ma si nascondono le responsabilità anzitutto politiche del governo centrale, nella sua incapacità a garantire la sicurezza del Paese, e quelle dei governatori regionali (del Nord Nigeria) che, pur essendo "musulmani", sono incuranti a garantire strutture e servizi alla loro popolazione, preferendo arricchirsi.

Un altro "abbaglio" dei media - come emerso dalle testimonianze di sacerdoti egiziani presenti - è nella descrizione della presidenza di Muhamed Morsi in Egitto, sempre definito "democratico", e quella dell'ex generale al-Sissi come "dittatoriale", sebbene col primo la sicurezza e i diritti per cristiani e musulmani avessero raggiunto il loro livello più basso.

A rompere lo stereotipo dell'islam fanatico e sanguinario, è servita la relazione del prof. Ramin Jahanbegloo (v. a sin. nella foto, accanto al card. Vinko Puljic), sciita iraniano, insegnante all'università di York (Canada), che ha messo in luce una tradizione di maestri musulmani non violenti, legati all'esperienza mistica dei sufi, che si è concentrata nella figura di Ghaffar Khan e Maulana Azad, due collaboratori del Mahatma Gandhi. Secondo Jahanbegloo, il loro insegnamento era molto vivo e presente nelle manifestazioni dell'Onda Verde, che nel 2012 ha criticato i brogli per l'elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Il movimento disarmato è stato messo a silenzio, con uccisioni e prigionie, sebbene viva ancora in modo sotterraneo.

Rimane il fatto che troppe violenze nel mondo attuale vengono giustificate dall'appartenenza religiosa, anche se l'appello di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di papa Francesco sul rifiuto della violenza "in nome di Dio" trova sempre più spazio anche fra autorità musulmane. La relazione di don Javer Prades, rettore dell'università san Damaso di Madrid è stata illuminante al proposito. Commentando il documento della Commissione teologica internazionale su "Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza", egli ha mostrato che vi è un tentativo subdolo di mostrare la religione (e il monoteismo in particolare) come la causa di tutte le violenze nel mondo, che spinge gli Stati a emarginare le comunità religiose come una "patologia sociale". Il rifiuto della violenza che è parte della missione cristiana è un "kairos per tutti", un appello importante e urgente per la società mondiale. La stessa testimonianza dei martiri - che hanno preferito l'essere uccisi che rispondere con l'offesa - sono esempi di non violenza feconda per la società. E ha ricordato i monaci cistercensi di Tibhirine, uccisi in Algeria, il cui luogo di martirio è ora sede di pellegrinaggi da parte di cristiani e musulmani. Non va nemmeno dimenticato come sempre più, in Iraq, Siria, Pakistan, India, Indonesia,... davanti alle violenze  islamiche contro i cristiani si levano sempre più voci musulmane a difesa dei cristiani e a condanna delle azioni dei loro correligionari.