P. Sala: per i buddisti thai, il “missionario” Papa Francesco incarna lo spirito di Assisi
di Dario Salvi
P. Valerio Sala è un sacerdote Pime, da cinque anni nel Paese asiatico. Egli racconta come è nata la vocazione e lo slancio missionario dopo una breve esperienza in Africa. Globalizzazione e relativismo, penetrate “a fondo” nella cultura thai, le sfide aperte. Cristo la base per un “vero cambiamento sociale e morale”.

Milano (AsiaNews) - Papa Francesco è "guardato con molto interesse anche dai buddisti", colpiscono molto i suoi gesti e le sue parole, soprattutto "in Thailandia dove l'abito e il protocollo" sono elementi ancora oggi importanti che vengono osservati "da tutti". Così P. Valerio Sala, sacerdote del Pontificio istituto missioni estere (Pime), missionario da cinque anni nel Paese asiatico, descrive il fascino esercitato dal Pontefice argentino sulla cultura e il popolo thai. Fra i cattolici e non solo, per i quali Bergoglio "incarna davvero lo spirito di Assisi" e "aiuta a capire che la Chiesa non è solo il Vaticano, ma è "una persona che si mette in gioco" per tornare ai valori fondamentali del Vangelo". P. Sala, in questi giorni in Italia, è nato a Carugate (in provincia di Milano) nel 1973  in Thailandia è vice-parroco nel centro cattolico di Santo Spirito a Mae Suaj ("Mamma Bella" in lingua locale, ndr), un villaggio della provincia di Chiang Rai. Egli è entrato nel Pime nel 2002, dove ha compiuto il ciclo di studi (due anni a Roma, quattro a Monza) per diventare sacerdote. L'ordinazione risale al 7 giugno 2008 a Milano, per mano dell'allora arcivescovo card Dionigi Tettamanzi. A novembre tornerà in Thailandia e, prima di ripartire, ha voluto condividere con AsiaNews una riflessione sulla missione.  

P. Valerio, come è nata la vocazione per la missione?
Il desiderio di partire è nato dopo aver fatto un'esperienza di missione per tre mesi in Africa, nel 1999, nella Repubblica del Congo. Avevo già trascorso cinque anni con i Frati minori dell'Umbria, nel convento di Assisi. La vocazione era già presente, tuttavia il periodo trascorso in Africa mi ha fatto capire che non ero destinato a una vita in convento, ma il desiderio era di partire verso nuove terre. Ero già in un momento di riflessione sulla natura della mia vocazione, e quella esperienza ha indicato la strada, facendomi capire che quello che volevo era la missione.  Fin da piccolo ero affascinato dalla figura del sacerdote, guardavo i preti della mia parrocchia [Carugate, ndr] e vedevo persone molto impegnate e contente. A dirla tutta, già a 10 anni pensavo di farmi prete e, sebbene con l'adolescenza l'idea si sia un po' "appannata", il rapporto fondamentale con un padre spirituale e la frequenza costante dell'oratorio mi hanno aiutato a capire che quella era la strada giusta. Posso dire che ho scelto con serenità, perché aiutato da persone giuste. 

Dalla prima esperienza in Africa, alla Thailandia. Che effetto ha fatto conoscere il Paese di destinazione?
Innanzitutto voglio sottolineare che i tre mesi trascorsi in Congo mi sono serviti per capire che dovevo andare là, dove la gente aveva e ha ancora bisogno di conoscere e incontrare Cristo. Un'esperienza diversa da quelle vissute sino ad allora, al periodo in convento, mediante la quale ho davvero capito che la Chiesa non si limita alla parrocchia di Carugate, che per me era sempre stato il modello. La missione, che in un primo momento guardavo con distacco e poco interesse, soprattuto da giovane, mi ha aperto gli occhi e mi ha indicato una dimensione più ampia, ha mostrato la visione universale della Chiesa cattolica. Per quanto concerne la Thailandia, vi ero già stato nel 2004 e mi era piaciuta molto pur non conoscendo molto di quella realtà, così diversa dalla nostra. Il periodo trascorso con i padri del Pime aveva rappresentato una bella esperienza, una tappa ulteriore nel percorso. Quando il superiore generale mi ha indicato la Thailandia sono stato felicissimo, si è trattato quasi di una "conferma" nella scelta missionaria e, nonostante il problema dello studio della lingua e dell'impatto con una cultura profondamente diversa, mi sono fidato. 

L'Asia, un continente "giovane" in tema di missione, definito da Giovanni Paolo II "nostro comune compito per il terzo millennio"...
Bisogna ammettere che Giovanni Paolo II ha visto giusto, pensando sia alla Thailandia che all'Asia nel suo complesso. Sia il Paese degli elefanti che l'intero continente hanno bisogno di conoscere Cristo, per un vero cambiamento sociale e morale. Guardando alla realtà thai, si vede come la gente è a tratti prigioniera non solo di una cultura e di una credenza, ma al tempo stesso di un modo di vivere la reincarnazione che esula dal buddismo e che il Vangelo potrebbe liberare perché indica una via nuova. L'intuizione di Giovanni Paolo II è ancora oggi attuale, soprattuto se pensiamo agli effetti devastanti esercitati dalla globalizzazione. Questo è un dato oggettivo, che ho riscontrato nei miei cinque anni di missione; essa sta rovinando persino le prime generazioni di cristiani. La crescita economica spinge le persone a guardare a uno stile di vita da film americano; ecco dunque che la battaglia non è solo per la missione, ma come ha sottolineato più volte Benedetto XVI è necessario sfidare anche la cultura del relativismo, che è già penetrata all'interno della società thai. 

E come si manifestano, nel concreto, questi elementi di relativismo e di globalizzazione?
Per capirci: anche nella mia parrocchia i ragazzi sentono di avere bisogno dei telefoni cellulari, anzi... degli smartphone, che sono quasi più importanti di un rapporto concreto e di un aiuto personale. Questo succede anche nelle tribù del nord della Thailandia, sui monti, fra persone che vivono nelle capanne. La sfida missionaria è anche far capire che il cellulare non è tutto a livello sociale, che esistono valori "altri" che vanno scoperti e vissuti, penso al Vangelo che si incarna nella realtà. Ancora oggi alcuni dei miei tribali uccidono per motivi futili, banali, perché ragionano secondo un'ottica di "branco": di recente è morto un ragazzo di 17 anni, ucciso a bastonate in un banale scontro fra fazioni calcistiche diverse. È necessario restituire loro dignità umana, uguaglianza, i valori che Gesù e San Paolo hanno cercato di trasmettere e insegnare. Come dice San Paolo, "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi" e il Vangelo è proprio questo, la liberazione da condizionamenti umani. 

Che impatto ha avuto, sinora, il pontificato di Papa Francesco in Thailandia e i suoi molti appelli alla missione? 
Papa Francesco è guardato con molto interesse, anche dai non cristiani. Un esempio: il mio medico a Bangkok, buddista, è solito citare il Pontefice. Bergoglio colpisce molto in Thailandia, dove abito e protocollo sono ancora oggi osservati e rispettati da tutti. Anche se le traduzioni sono poche, leggono con molto interesse i suoi interventi in thai e pensano che egli incarni davvero lo spirito di Assisi, anche perché in Thailandia San Francesco, la sua storia, è conosciuta e apprezzata. Il Papa aiuta a capire che la Chiesa non è solo il Vaticano, ma è una persona che si mette in gioco per tornare ai valori fondamentali del Vangelo. Nel cammino di missione, egli indica la via e fa uscire da una modalità ossequiale che blocca le relazioni e accorcia la distanza fra clero e popolo. E le sue frasi lapidarie e, a volte, scomode fanno rinascere la voglia di missione e conversione. 

P. Sala, quali sono le sfide al rientro in Thailandia? 
Con i padri missionari del nord abbiamo iniziato un cammino comunitario di percorsi educativi, perché le nostre missioni siano il riflesso di una esperienza comune, non lo slancio di un singolo individuo e non si basino su progetti personali. Serve una linea comune per capire cosa ci chiede oggigiorno la società thai, in particolare la sfida educativa dei giovani. Di certo vi è un grande bisogno di manifestare affetto e vicinanza, in una cultura che privilegia ancora il distacco e la forma. C'è bisogno, come fa il Papa, di esprimere il bene alle persone, di mostrare una dimensione che aiuta nei rapporti e nel coinvolgimento personale.