Leader palestinese: “l’Intifada dei coltelli” è la disperazione di un popolo, servono risposte politiche
Bernard Sabella sottolinea la mancanza “di volontà politica e di leadership” che alimenta le violenze. Per risolvere la crisi è necessario uno “scatto della politica” in grado di superare le divisioni e statisti in grado di “imporre un accordo” che dia sicurezza e dignità. E la leadership palestinese non può accettare le uccisioni “come un male necessario”.

Gerusalemme (AsiaNews) - Gli attacchi di queste settimane, la “intifada dei coltelli” e le uccisioni per le strade di Israele sono “il frutto della disperazione di un popolo” e conseguenza della “mancanza di volontà politica e di leadership, in particolare fra i vertici israeliani”. In questo momento “è difficile lanciare messaggi di speranza”, ma è necessario “uno scatto in avanti della politica” che deve riuscire vincere le divisioni, i conflitti, le diffidenze fra i due fronti. È quanto afferma ad AsiaNews il prof. Bernard Sabella, cattolico, rappresentante di Fatah per Gerusalemme e segretario esecutivo del servizio ai rifugiati palestinesi del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente, commentando la spirale di violenza che da un mese insanguina la Terra Santa. Per superare la crisi, aggiunge, “ci vuole un [Charles] de Gaulle israeliano, un vero statista, che sappia imporre un accordo al proprio Paese e che possa garantire sicurezza per gli israeliani e dignità ai palestinesi”.

Anche oggi si sono registrati nuovi attacchi all’arma bianca, con un soldato israeliano accoltellato nei pressi dell’insediamento di Gevaot. Il militare e il suo assalitore sono rimasi feriti in modo non grave e sono entrambi ricoverati in ospedale. Il bilancio delle violenze dell’ultimo mese è di otto morti sul versante israeliano e almeno 49 vittime palestinesi.

Intanto la polizia israeliana ha tolto le restrizioni che impedivano l’accesso alla moschea di Al-Aqsa agli uomini con meno  di 45 anni. Un timido tentativo di distensione e di apertura, come l’iniziativa di un ristorante nel villaggio di Kfar Vitkin, che offre sconti fino al 50% a ebrei e arabi che condividono il pasto allo stesso tavolo. Ma la speranza di dialogo affonda in un clima di paura, odio reciproco e diffidenza che non riguarda solo i palestinesi, ma coinvolge gli stessi arabi israeliani (il 17,5% del totale della popolazione).

In questo contesto si inserisce la morte di un giovane immigrato irregolare eritreo, ferito dai soldati israeliani e linciato dalla folla, perché ritenuto responsabile (a torto) di un attacco. Il clima di sospetto allontana sempre più le due comunità, come conferma un imprenditore di Tel Aviv che ha licenziato 18 operai arabi nel timore che potessero colpire i due colleghi ebrei. E si fa strada l’idea secondo cui il principio di coesistenza, per quanto auspicabile, sia solo un sogno irrealizzabile.

Per il professor Sabella il problema ruota attorno alla “mancanza di un processo politico”, nel contesto di una situazione stagnante in cui “nulla si sviluppa”. In Israele manca una vera leadership, mentre gli attuali governanti “incolpano sempre noi palestinesi dei problemi. Non capiscono - aggiunge - che vietare l’ingresso alla moschea rappresenta un problema, che l’attività dei coloni è un problema, che incendiare gli olivi è un problema”.

“Non dico che non dobbiamo provare a raggiungere la pace - sottolinea il leader cattolico di Fatah - ma anche da parte di Israele ci vuole più impegno. Tuttavia, se si guarda la situazione a Gerusalemme, a Betlemme, nei villaggi si vedono blocchi di cemento dappertutto. E non è questa la risposta giusta al problema”. La violenza non è mai giustificabile, aggiunge, ma è altrettanto necessario “il rispetto per il vicino”.

Egli non risparmia critiche alla leadership palestinese, che “non può e non deve accettare le uccisioni” come fossero un male necessario. “Quello che dobbiamo fare noi palestinesi - spiega - è attuare una forma di resistenza non violenta ed elaborare una strategia positiva anche se Israele non ci lascia uscire dalla Cisgiordania”. “Il governo attuale di Israele - nota con rammarico - non vuole uno Stato palestinese indipendente, ma un esecutivo docile che cooperi con i militari per la loro sicurezza. Questa non è una visione di pace, ma una occupazione sotto altro nome che non possiamo accettare. Si registrano provocazioni e violenze a ritmo quotidiano, come è possibile raggiungere la pace in questo modo? Siamo molto preoccupati…”.

In questo contesto è difficile lanciare messaggi di speranza, avverte il prof. Sabella, perché “gli israeliani guardano ai palestinesi come inferiori e i palestinesi considerano i soldati israeliani nemici e, di riflesso, l’intera popolazione israeliana come nemica”. Per questo serve “uno scatto in avanti della politica, anche se finora è mancata la volontà di compiere questo passo”. “Dobbiamo essere forti e uniti - conclude il leader palestinese - e convincere la nostra gente che la non violenza è la soluzione migliore, altrimenti tutti [arabi ed ebrei] saremo destinati a soffrire. Quella di oggi non è una rivolta organizzata, ma la disperazione di un popolo che ha subito troppo a lungo”.(DS)