Lavoratrici “schiave” in Arabia Saudita: Vogliamo tornare a casa, basta maltrattamenti
di Sumon Corraya

Lo scorso anno Dhaka e Riyadh hanno siglato un accordo per l’invio in Arabia di 120mila lavoratrici. Nel 2015 sono partite 20.952 donne, ma tante sono già tornate. Al rientro hanno raccontato storie di abusi e minacce: di giorno schiave in casa, di notte schiave del sesso. Reclutatore saudita: “Amiamo le donne bangladeshi perché sono musulmane e indossano il velo”.


Dhaka (AsiaNews) – Migliaia di donne bangladeshi emigrate nel Regno saudita in cerca di lavoro vogliono tornare nel Paese di origine a causa dei continui maltrattamenti che subiscono. Tante di loro hanno già fatto ritorno e hanno denunciato le condizioni di schiavitù lavorativa a cui sono state sottoposte: di giorno servivano in casa come domestiche, di notte erano costrette a soddisfare i desideri sessuali dei datori di lavoro e dei dipendenti maschi.

Per sette anni il Bangladesh ha sospeso l’invio di lavoratrici donne in Arabia, permettendo la partenza solo degli uomini. Lo scorso anno però le autorità di Dhaka hanno siglato un accordo che prevede lo scambio anche delle donne. Esse vengono educate nel Paese d’origine, dove il governo ha aperto 26 centri per la formazione professionale di cameriere e domestiche. Poi partono alla volta dei Paesi del Medio Oriente, dove però molte subiscono minacce e abusi sessuali.

L’accordo stipulato tra i due governi prevede l’invio di 120mila donne bangladeshi nei prossimi anni. Nel 2015 sono state 20.952 le lavoratrici emigrate, ma molte di loro sono già ritornate. Monira Akter (nome di fantasia) è una di loro e racconta ad AsiaNews: “Ho seguito il corso di formazione organizzato dal governo per imparare a svolgere le faccende di casa, ma non ho potuto svolgere il mio lavoro in modo adeguato perché il mio datore voleva costringermi ad avere rapporti sessuali”. “Non sono andata lì per vendere il mio corpo – è la sua denuncia – sono emigrata per raccogliere soldi per la mia famiglia”.

La donna racconta di conoscere altre cinque lavoratrici che hanno subito la sua stessa sorte. Un’altra vittima di questo sfruttamento rivela: “Il mio padrone mi trattava male, non mi permetteva di telefonare in Bangladesh e così sono tornata indietro”.

Abdul Aziz, un saudita che recluta donne in Bangladesh, ammette: “Noi amiamo le lavoratrici bangladeshi perché sono musulmane e indossano il burka [il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi, ndr]”.

Rosaline Costa, attivista cattolica, dichiara: “Non è difficile capire il motivo per cui le donne non vogliono andare in Arabia Saudita, se si considera il modo in cui vengono sfruttate dai datori: di giorno schiave in casa, di notte schiave del sesso”.

L’attivista ritiene che sia insufficiente la previsione, di recente approvata, di consentire ad un parente maschio di accompagnare le lavoratrici in qualità di “guardiano”. “Non hanno nessun’arma – dice – che possa aiutare le parenti. Saranno persone indifese e senza protezione legale, dal momento che verrà ritirato loro il passaporto, il biglietto aereo e non sapranno a chi chiedere aiuto se hanno problemi di notte”.

La donna conclude: “Date le recenti notizie di sfruttamento, i parenti delle lavoratrici non vogliono più consentire la loro partenza, se questo significa che quasi tutte saranno costrette a essere schiave del sesso per il datore e per i suoi dipendenti maschi”.