La svolta democratica del Myanmar spaventa Tokyo e le sue aziende

La Lega nazionale birmana per la democrazia ha chiarito che gli investimenti esteri nel Paese dovranno andare “prima di tutto a beneficio del popolo”, ma non ha ancora presentato un vero e proprio piano economico. Dal 2011 le aziende nipponiche in Myanmar si sono moltiplicate, ma ora sembra regnare l’attesa. Il costo della produzione e la situazione dei lavoratori sono il nodo della questione. Gli investitori “vogliono prima di tutto guadagnare. Soltanto in un secondo momento rispettano i diritti umani”.


Tokyo (AsiaNews) – La svolta democratica che sta travolgendo il Myanmar raccoglie il plauso del mondo intero. Dopo decenni di dominio militare, le prime vere elezioni libere hanno incoronato la Lega nazionale per la democrazia e la sua leader storica, Aung San Suu Kyi. Ma questo grande risultato spaventa il mondo della grande industria, e in modo particolare quello giapponese. Con circa 300 aziende nipponiche che operano in territorio birmano, infatti, Tokyo sembra intenzionata a capire – prima di nuovi investimenti – come si muoveranno i nuovi leader in campo economico e industriale.

È quanto emerge da una lunga analisi pubblicata dal Japan Times, che spiega: “Gli investitori di tutto il mondo vogliono prima di tutto guadagnare. Soltanto in un secondo momento rispettano i diritti umani”. Il riferimento è al mercato del lavoro, che con il nuovo governo potrebbe cambiare parametri in poche settimane. Secondo la Japan External Trade Organization – Jetro, una sorta di Camera di Commercio per le industrie giapponesi all’estero – al momento la situazione “è molto vantaggiosa dato il basso costo della manodopera”.

Lo stesso gruppo non entra però nei dettagli del trattamento economico e sindacale riservato agli operai. E le stime dell’Organizzazione mondiale del commercio piazzano il Myanmar agli ultimi posti nella classifica dei Paesi che rispettano i diritti dei lavoratori. La sfida, dice una fonte governativa anonima, “riguarda la delocalizzazione in altre aree del Sud Est asiatico. Sul lungo periodo Thailandia e Vietnam potrebbero risultare più convenienti”.

Un secondo nodo è rappresentato dai rapporti commerciali con Washington. Le sanzioni imposte dagli Stati Uniti al Myanmar della giunta militare impediscono di fatto anche rapporti economici con quelle nazioni che hanno “collegamenti con la sfera militare”. Kei Namoto, docente alla Sophia University di Tokyo, spiega che questo particolare potrebbe limitare la volontà di espansione giapponese: “Non è ancora chiaro quanto la giunta si terrà dietro le quinte. Ritengo che Washington possa in maniera graduale rilassare queste sanzioni, ma per ora sono un ostacolo da considerare”.

Aaron L. Connelly, del Lowy Institute di Sydney, sottolinea un ulteriore aspetto: “Il governo giapponese ha per anni sostenuto il Myanmar Peace Center, organizzazione emanazione dell’esecutivo che aveva il compito di portare avanti i negoziati di pace con le molte etnie birmane. Ma la Lega per la democrazia ha in più occasioni accusato il Centro di corruzione, e ha chiesto un’inchiesta sui fondi ricevuti dagli stranieri”.

Alcuni, continua il ricercatore, “pensano che il Giappone abbia cercato di comprare influenza economica attraverso i fondi per la pace, e U Win Htein [uno dei principali collaboratori di Aung San Suu Kyi ndr] ha denunciato più volte questi rapporti. Bisognerà capire come il nuovo governo tratterà il Centro e le sue operazioni, per capire meglio anche come finiranno i rapporti con il Sol Levante”.

Toshihiro Mizutani, della Jetro, si mantiene comunque ottimista: “Abbiamo investito tanto e sono convinto che molte altre aziende nazionali ci seguiranno. Certo, alcuni vorranno tenere un atteggiamento attendista per vedere cosa farà questa nuova democrazia che si è affermata in Myanmar. Ma alla fine ripartiranno gli scambi”.