Le presidenziali americane, una “sfida imprescindibile” per l’Asia dell’Est

Pechino, Seoul e Tokyo seguiranno con molta attenzione il primo dibattito fra i candidati alle elezioni americane. La Clinton e Trump hanno posizioni diverse che, in misura diversa, convincono i vari Stati asiatici. Il rapporto bilaterale Usa-Cina non è in discussione, vista l’interdipendenza commerciale: resta da capire come sarà la convivenza. Il rapporto con l’islam e il terrorismo islamico, incognita di peso.

 

 

 


Pechino (AsiaNews) – Il dibattito fra i due candidati alle presidenziali degli Stati Uniti, previsto per questa sera (ora americana), sarà guardato con molta attenzione anche dai leader del mondo asiatico. In particolare, esso sarà seguito dalla leadership di Pechino: sia Hillary Clinton (democratica) che Donald Trump (repubblicano) presentano infatti incognite dal punto di vista diplomatico, economico e finanziario che con ogni probabilità coinvolgeranno anche la Cina.

Per gli asiatici, la posizione degli Stati Uniti nel mondo e nel continente dipende da tre fattori-chiave: il rapporto con i cinesi, maggiore partner commerciale bilaterale; la volontà di mantenere il ruolo di guida nel commercio globale e globalizzato; la volontà di intervenire come “partner per la sicurezza” in Asia.

Per quanto riguarda le nazioni storicamente vicine agli Usa, come Giappone e Corea del Sud, la scelta è abbastanza semplice. Seoul, sostengono analisti e diplomatici, è “chiaramente” dalla parte della Clinton in quanto teme la posizione oltranzista di Trump nei confronti della Corea del Nord. Per quanto un’America “dura” con il regime dei Kim possa essere una garanzia per contenerne il programma nucleare, un’America “troppo dura” come quella ipotizzata dal candidato repubblicano potrebbe portare a un conflitto disastroso. Soprattutto per il suolo e per il popolo sudcoreano, che con ogni probabilità sarebbero i primi a pagarne le conseguenze.

Vi è poi il tema, molto sensibile, del Trans-Pacific Partnership. L’accordo riguarda il libero scambio commerciale fra 12 nazioni, per la maggior parte asiatiche: Stati Uniti, Giappone, Malaysia, Vietnam, Singapore, Brunei, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Cile e Perù. Firmato dall’esecutivo americano, non è stato ancora ratificato dal Congresso: e visti i pochissimi giorni che restano prima delle presidenziali – il primo martedì del prossimo novembre – sarà a carico del futuro leader americano.

I sudcoreani sono a favore del patto commerciale, con qualche distinguo. La Clinton ha promesso che lo porterà avanti, ma ha aggiunto che “vuole rivederne i termini”. Trump, sostenitore del protezionismo e forse tendente all’autarchia commerciale, potrebbe invece revocarlo ancora prima di portarlo davanti ai deputati statunitensi. Con un grave danno di immagine per Seoul, che ha combattuto una strenua battaglia interna per farlo approvare.

Il Giappone condivide entrambe le preoccupazioni del Paese vicino – rapporti con la Corea del Nord e bilancia commerciale – ma è ancora troppo legato agli Stati Uniti per potersi permettere una vera opposizione diplomatica al prossimo inquilino della Casa Bianca. Come scrive un editoriale della scorsa settimana, apparso sul Mainichi Shimbun, “chiunque vincerà avrà l’appoggio di Tokyo”. Anche se forse, quanto meno da parte del governo di Shinzo Abe, si registra una “lieve preferenza” per Trump, visto come “un uomo forte”.

A sorpresa questo fattore potrebbe convincere anche i cinesi. In un commento pubblicato dal South China Morning Post, l’analista politico Derwin Pereira sostiene infatti che il decisionismo e il trascorso da industriale del repubblicano “piacciono alla Cina, che ama chi ama il potere. E non va dimenticato che Trump ha lodato la ‘forza’ dimostrata da Pechino durante la repressione dei moti di piazza Tiananmen”. La vera incognita che potrebbe turbare questo equilibrio, scrive ancora Pereira, “viene dalla questione relativa al mar Cinese meridionale. Entrambi i candidati hanno posizioni forti sull’argomento, ma rimane da capire quanto potrebbero spingersi avanti per limitare le ambizioni marittime dei cinesi. Su questo vi sarà enorme attenzione durante il dibattito. Il senso generale e condiviso è che Washington e Pechino hanno bisogno l’una dell’altra. Quello che importa e capire come riusciranno a rimanere vicini”.

L’ultimo punto in bilico che attrarrà l’attenzione dell’Est del mondo riguarda la posizione dei candidati rispetto all’islam e al terrorismo islamico. In questo ambito sembra in vantaggio la Clinton, che si è più volte rifiutata di equiparare la religione musulmana al fondamentalismo e intrattiene rapporti di lungo corso con la comunità islamica degli Stati Uniti. Peggiore la posizione di Trump, che invece è arrivato a proporre l’espulsione dei musulmani dal suolo americano.

La visione mono-dimensionale dell’islam proposta da Trump, chiosa Pereira, “non convincerà quelle nazioni che convivono con turbolente minoranze musulmane come le Filippine, la Cina, l’India o la Thailandia. Se non presenterà politiche credibili sull’argomento, perderà punti. Per non parlare delle nazioni a maggioranza musulmana, che potrebbero arrivare a sbattergli in faccia la porta”.