Emirati Arabi, paradiso finanziario e inferno della manodopera asiatica

Oltre 10 milioni di operai asiatici lavorano negli Emirati in condizioni di semi schiavitù, per 200 dollari al mese.  Proibiti sindacati e proteste. Tornano a casa 1 volta ogni 2 anni.


Dubai (AsiaNews/Agenzie) – Un boom edilizio senza precedenti esplode nell'emirato di Dubai grazie al lavoro di operai tenuti in condizioni di quasi schiavitù. Questi operai – circa 10 milioni - lavorano giorno e notte a decine di metri di altezza per innalzare le torri di Jumeira Beach, il secondo maggior complesso edilizio del mondo dopo Shanghai.

Gli sceicchi vogliono far diventare Dubai la capitale economica del Medio Oriente e attirano chi vuole arricchirsi con gli investimenti edilizi: dai signori della guerra afghani alle squadre di calcio inglesi. Spuntano dozzine di grattacieli e migliaia di appartamenti: li costruiscono un esercito di operai che vengono da India, Pakistan e Bangladesh. Uomini privi di qualifiche e senza altre speranze di lavoro, che per anni lasciano le famiglie per guadagnare anche 200 dollari americani al mese. Ne spendono la metà per vivere, mangiano riso, tè e zucchero e dormono ammassati in 6 per stanza.

Mentre i 100 mila britannici emigrati a Dubai vivono negli agi, gli operai asiatici sono banditi dai lussuosi grandi magazzini, dai nuovi campi da golf e dai ristoranti subacquei alla moda. Sopportano temperature di 50 gradi centigradi in estate e possono tornare a casa dalle famiglie solo una volta ogni 2 anni. Gli incidenti sul lavoro sono frequenti.

Gli occidentali non si curano di loro, forse li notano solo al termine della giornata di lavoro quando lunghe file di uomini esausti attendono con pazienza l'autobus per tornare alle abitazioni in periferia. "La famiglia mi manca –dice Mohammed Iqbal, indiano di Hyderabad, da 10 anni operaio a Jumeira Beach- ma guadagno 600 dirham (circa 163 dollari Usa) al mese". Ne spende 180 per il cibo e il giorno di riposo settimanale vede DVD di Bollywood, per mandare tutto alla famiglia.

Gli operai non hanno voce né diritti, i sindacati sono proibiti. Quando hanno protestato in pubblico per le condizioni di lavoro sono stati caricati dalla polizia e i "piantagrane" sono stati espatriati. Negli Emirati Arabi Uniti – dei quali Dubai è il maggiore - i lavoratori esteri non hanno diritti.

Nel 2003 si è svolta qui la Conferenza annuale dei rappresentanti della World Bank e del Fondo monetario internazionale anche per parlare degli interventi contro la povertà. Per l'occasione Human Rights Watch ha denunciato che i lavoratori sono tenuti in una condizione di lavoro forzato, senza difesa contro discriminazioni e abusi. Le donne, che trovano lavoro come cameriere e negli alberghi, corrono alti rischi di molestie e violenze sessuali.

"I lavoratori – scrive Hrw in una lettera al presidente della World Bank - spesso hanno paura di reclamare i salari non corrisposti, di protestare per le loro misere condizioni o di rivolgersi alla legge contro gli abusi". La denuncia non ha avuto effetti. Le grandi ditte, molte delle quali sono britanniche o gestite da emigrati, rispondono che i lavoratori vengono a Dubai di loro volontà.

Il sogno dei 10 milioni di lavoratori generici che lavorano nella zona del Golfo è di guadagnare abbastanza per comprare un pezzo di terra o un piccolo negozio a casa. Ma vivono per anni in una virtuale schiavitù. Anche chi resta per sempre rimane privo di diritti e può venire cacciato via in ogni momento, magari insieme ai figli nati lì ma non considerati cittadini degli Emirati. (PB)