Yemen: dietro impulso di Washington, sauditi ed emirati mediano una pace ‘di facciata’
di Pierre Balanian

Da Washington l’appello alle parti in lotta per la fine dei combattimenti e l’inizio di negoziati. La stampa Usa “scopre” la tragedia nel Paese, bambini ridotti a pelle e ossa. Il caso Khashoggi e le responsabilità di bin Salman nello Yemen. Ribelli Houthi: la soluzione alla crisi rimane “inter-yemenita” se “liberi da ingerenze straniere”.

 


Sana’a (AsiaNews) - Nel martoriato Yemen è crollato il muro di omertà. Da Washington il segretario di Stato e il ministro della Difesa intimano: “Le parti in conflitto hanno 30 giorni di tempo per porre fine ai combattimenti e sedersi intorno al tavolo dei negoziati”. Immediata la reazione del governo di Sana’a, che si è detto pronto a riavviare colloqui di pace con i ribelli sciiti Houthi, nel contesto di una crescente pressione internazionale per la fine del conflitto. “Lo Yemen - si legge in una nota diffusa ieri - è pronto a lanciare immediatamente trattative [di pace]”, rispondendo a un appello delle Nazioni Unite al riguardo. 

Nel frattempo, dopo quasi quattro anni, anche i giornali Usa “scoprono” la tragedia: il New York Times ha pubblicato di recente un reportage fotografico scioccante delle vittime yemenite, soprattutto bambini, ridotti a pelle ed ossa. La guerra viene definita “una delle tragedie più disumane dall’epoca della Seconda guerra mondiale”. Una svolta positiva alla quale hanno aderito Parigi e Londra; di contro, non è giunto ancora nessun commento dai due Paesi che hanno scatenato la guerra: Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita, ambedue alleati di Usa, Gran Bretagna e Francia.

Sin dal primo giorno degli interventi militari di Riyadh ed Abu Dhabi, gli Stati Uniti avevano sostenuto l’Arabia Saudita con l’Intelligence, immagini satellitari, aiuto logistico ed altro; forse persino con esperti militari sul campo e raid aerei. Una convinzione così radicata presso gli Ansar Allah, da accompagnare ogni lancio di missile in direzione dell’Arabia Saudita o degli Emirati con il grido di “Morte all’America”. 

Il “caso Khashoggi”, con quanto ne è scaturito, non poteva non attirare l’attenzione su un altro crimine compiuto questa volta contro l’umanità e sempre sotto la guida diretta dell’erede al trono Mohammad bin Salman (Mbs), a Riyadh definito artefice e architetto della guerra in Yemen. Le sconfitte militari della coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati nella battaglia per il controllo del porto di Hodeyda ha causato molte perdite in vite umane, da ambo le parti. E costretto la “coalizione” (soprattutto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) a far arrivare, secondo fonti di AsiaNews, nuovi mercenari dalla Somalia e altri paesi africani.

Dopo i ripetuti fallimenti militari e l’escalation della tragedia umanitaria si è giunti a una situazione non più sostenibile. Una tragedia che nemmeno i Paesi potenti ed alleati dell’occidente potevano ormai continuare a  tollerare, sostenere e coprire. Intrappolati nella pozzanghera yemenita, sia Abu Dhabi che Riyadh hanno varie volte dato segnali di volersi ritirare senza perdere la faccia. Dopo tante sconfitte, questi due Paesi si sono rivolti a molte organizzazioni internazionali. Ecco perché difficilmente Arabia Saudita ed Emirati si lasceranno sfuggire la via di uscita degli Stati Uniti.

Non si può dire altrettanto degli Ansar Allah [gli Houthi], che sanno di aver vinto la guerra e che vedono nei negoziati il tentativo di ottenere con la politica quanto non hanno ottenuto con la guerra. Questo ha precisato Hazzam Al Assad, dell’Ufficio politico dei ribelli sciiti, che ha dichiarato: “Sappiamo benissimo che gli aerei che uccidono le donne ed i bambini sono aerei americani… sappiamo bene che vi è una copertura americana […] di conseguenza fermare l’aggressione avviene per mano degli americani e non dell’Arabia Saudita o degli Emirati Arabi Uniti”.

“Gli americani - conclude - stanno cercando di deviare l’attenzione dai crimini perpetrati dall’Arabia Saudita nello Yemen o con l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi”. Ed ha accusato Washington attraverso questa proposta di mirare “alla spartizione dello Yemen”, vero motivo della guerra voluta da Washington. L’unica soluzione alla crisi rimane “inter-yemenita e potrà essere realizzata dagli yemeniti stessi se lasciati liberi da ingerenze straniere”.

Gli fa eco Mohamed Ali Al Houthi, il quale considera la dichiarazione statunitense “formale, non seria ed una fuga dalle responsabilità”. Il ministro degli esteri di Sanaa invece, Hisham Sharaf, ha dal canto suo accolto con favore “gli sforzi dell’inviato speciale dell’Onu per lo Yemen che mirano a porre fine agli scontri armati, levare l’embargo e raggiungere una soluzione politica duratura”.

Abdel Ghani, analista yemenita, afferma che “gli Stati Uniti sono la parte del problema e che non possono essere allo stesso tempo parte della soluzione, tantomeno mediatori”. Resta la domanda fondamentale: come potrà la comunità internazionale rilevare la sfida e interrompere la scia di fame ed epidemie che minacciano di sterminio un intero popolo innocente di 23 milioni di abitanti.