Proteste in Libano: anche i popoli hanno bisogno di sognare
di Fady Noun

Con la sollevazione del 17 ottobre, siamo davanti al momento fondante di una nuova consapevolezza civica. I libanesi decidono di superare il male che si sono fatti nella guerra civile. La loro richiesta di giustizia sociale non può essere ignorata o minimizzata.


Beirut (AsiaNews) – I desideri di cittadinanza e giustizia sono alcuni dei tratti distintivi più profondi della rivolta a cui stiamo assistendo. Tra tutte le riflessioni che essa solleva, quella che le conferisce la funzione principale di porre fine simbolica alla guerra civile è la più commovente, la più vera, la più inaspettata.

Ecco il popolo libanese, con tutte le comunità raccolte e le classi mescolate, sperimentare un'immensa catarsi che lo rivela a sé stesso e lo libera dalla camicia di forza che gli era stata trasmessa. Essa gli è costata quasi 200mila tra morti e dispersi e Dio sa quanti feriti, disabili, traumatizzati a vita (perché la mente può esserlo tanto quanto il corpo) ed esiliati.

Nessun perdono reale è stato richiesto, né concesso, per questa furia che ha devastato un Libano intrappolato nel gioco delle nazioni. Una nuova generazione si mobilita e decide di trascendere questo trauma, nell'euforia di una rinnovata appartenenza nazionale trans comunitaria: è di questo che si tratta; e sarebbe imperdonabile chiudere gli occhi di fronte a questa sfida, in nome dell’economia o della sicurezza; sospendere questo incredibile miscuglio di membri dello stesso popolo che, da disfattista e prostrato, prende o riprende il dibattito pubblico e si sente per la prima volta padrone della sua storia. Vi è un sogno infinitamente prezioso che non dev’essere infranto. Anche i popoli hanno bisogno di sognare.

Con la sollevazione del 17 ottobre, siamo davanti al momento fondante di una nuova consapevolezza civica in cui i libanesi trascendono il male che si sono fatti, nonostante i discorsi populisti che volevano impedirlo. È in corso un'enorme e straordinaria lezione di civismo, al suono delle orchestre e al canto dell'inno nazionale. “È un momento felice quell'insurrezione in cui la sofferenza degli uomini e delle donne di Tripoli risuona con i figli e le figlie di Jounieh, Beirut, Tiro e altre regioni. E viceversa. La diversità si trasforma in frammentazione, quando non sposa la solidarietà sociale, quando non ha come orizzonte la dignità di ogni essere umano, una giustizia sociale universale e uno sviluppo sostenibile”, scrive la Fondazione Adyan sul suo sito.

La richiesta di giustizia sociale dell'insurrezione non può essere ignorata o minimizzata. Le disparità sono emerse di fronte alla corruzione e al denaro pubblico rubato o sprecato. Siamo in presenza di un sussulto per una vita più dignitosa e le denunce contro una disoccupazione dilagante aumentano con regolarità. Inoltre, se gli uomini al potere non fossero stati così miopi, la prima cosa da fare, la più eclatante, sarebbe stata quella di concedere subito il mandato alle guardie forestali e altri volontari della Protezione civile, privati dei loro diritti dal dispotismo di un gruppo che si crede investito della missione di “difendere i diritti dei cristiani”.

Gli incendi dell'inizio del mese sono ancora nella memoria di tutti; essi hanno enfatizzato in modo esemplare le precarie condizioni di vita di alcune categorie sociali. È a queste che bisogna guardare quando uomini e donne senza denti si avvicinano al microfono. La mancanza di cure odontoiatriche è emblematica della povertà estrema. E secondo le statistiche, quasi 50mila famiglie vivono al di sotto della soglia di estrema povertà, o pochi dollari al giorno.

Alcune delle loro facce emaciate e con la barba lunga sono apparse sul piccolo schermo. Possiamo forse dimenticare la vulnerabile categoria dei disabili fisici e soprattutto mentali, che sono stati ridotti a chiedere l'elemosina nel tentativo di migliorare una condizione economica già misera? Possiamo dimenticare la sospensione dei prestiti immobiliari, che ha ridotto alla disperazione migliaia di giovani coppie senza risorse? Possiamo dimenticare la vergogna delle nostre prigioni, dove ribolle il sangue di così tanti giovani?

Luc Balbont, un blogger da L'Oeuvre d'Orient, scrive: “Quello che sta accadendo dallo scorso giovedì 17 ottobre in Libano è uno degli episodi di una rivoluzione civica globale contro gli abusi di un liberalismo globalizzato selvaggio, indifferente alle difficoltà quotidiane e alle sofferenze della gente”.

Questo accade anche in Francia con il movimento dei gilets jaunes scoppiato a novembre 2018, ma anche in Algeria da febbraio e a Baghdad dall'inizio di ottobre. Cosa vogliono queste migliaia di libanesi, cristiani, musulmani, drusi o agnostici, che stanno invadendo le strade delle città, da nord a sud? Semplicemente uno Stato di diritto, uno Stato civico con servizi pubblici decenti: acqua, elettricità, trasporti pubblici, ospedali, strade in buone condizioni, giustizia sociale, parità, ecc. E cosa non vogliono più? Un Paese gestito sin dall'indipendenza nel 1943 da padri e figli dalle stesse famiglie, che privilegiano i propri interessi a scapito di quelli della comunità, “confessionalizzandola” per sottometterla meglio. Non vogliono vivere sotto il giogo di piccoli e avidi dittatori medievali.

Come terminare questo articolo senza rendere omaggio agli infaticabili cronisti indipendenti, che dal 17 ottobre solcano il Paese per coprire questa rivolta senza precedenti nella nostra storia. Ciascuno di loro dovrebbe ricevere una medaglia. Nel loro ruolo di specchio e amplificatore della rivolta per la dignità, hanno fatto meraviglie; senza di loro, questo sussulto nazionale avrebbe potuto rimanere senza fiato. Ci riconciliano con un caotico panorama dei media, che per troppo tempo ha frammentato i libanesi invece di riunirli. Partecipando oggi alla presa di parola nazionale, essi si riscattano e riparano ciò che hanno contribuito a distruggere: la nostra unità.