Santa Sofia, pedina per islamizzare la Turchia

Ali Erbas, capo del Diyanet, ha guidato brandendo una spada con incisioni coraniche le preghiere del venerdì. L’obiettivo di creare una madrassa all’interno della ex basilica cristiana e di formare una “generazione pia”. La crescente inquietudine e incertezza fra gli ortodossi, che temono assimilazione e persecuzioni.


Istanbul (AsiaNews) - Al centro della coreografia politica e religiosa per la trasformazione di Santa Sofia a Istanbul in moschea, voluta con forza dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, vi è la più importante personalità islamica del Paese, Ali Erbas. Titolare dal 2017 del dicastero per gli Affari religiosi, egli ha guidato le due preghiere del venerdì tenute sinora nella basilica cristiana brandendo una spada (nella foto) con inciso sulla lama un versetto del Corano. 

Hagia Sophia fino ai primi di luglio era un museo e dipendeva dal ministero del Turismo e della cultura. Oggi il controllo dell’edificio è passato al ministero per gli Affari religiosi (Diyanet) controllato da Erbas, figura potente e legata a doppio filo al “sultano” Erdogan. 

Il 59enne teologo turco ha grandi mire per Santa Sofia, diventata simbolo della politica “nazionalismo e islam” del presidente, all’interno della quale vuole creare in primo luogo una madrassa, una scuola coranica. Le moschee, sottolinea, “sono delle scuole” dove educare “i giovani e i bambini” nel solco del progetto di Erdogan che vuole creare una “generazione pia”. 

Creata nel 1924 per controllare la fede musulmana, la direzione degli Affari religiosi è diventata nel tempo uno strumento per “islamizzare” la società turca: sotto il diretto controllo del presidente, essa vigila su 84684 moschee sparse per il Paese, stipendia gli imam, i teologi, i muezzin e i predicatori. A queste si aggiungono altre 2mila moschee all’estero. Essa dispone di un budget consistente, pari a circa 1,4 miliardi di euro e conta sull’opera di 170mila funzionari.

Come ricorda Le Monde, le fatwa (editti religiosi) emessi da Diyanet sono spesso fonte di controversia: nel 2018 aveva sollevato scandalo l’affermazione secondo cui le bambine si potessero sposare dall’età di nove anni. Di fronte all’ondata di sollevazione popolare, l’istituzione aveva deciso di fare dietrofront e ritirate l’editto. Lo stesso Ali Erbas ha dovuto ritirare parti dei sermoni pronunciati a Santa Sofia nei venerdì di preghiera, in particolare nei passaggi in cui esaltando il tema della “conquista” ha attaccato Ataturk, padre fondatore della moderna Turchia, per aver trasformato la basilica cristiana, diventata moschea con la conquista di Costantinopoli, in museo. 

In soccorso al predicatore e ministro è subito giunto il presidente Erdogan, affermando che “attaccare il capo di Diyanet è come attaccare lo Stato. E quanto ha detto nel suo discorso è corretto in ogni sua parte”. 

In questo contesto crescente di radicalizzazione della nazione, si fa sempre più forte la sensazione di inquietudine e incertezza dei cristiani ortodossi, ultimo retaggio di una comunità millenaria ridotta oggi a un manipolo di “Rums” in massima parte anziani e ai margini della società. Di 160mila a inizio del XXmo secolo, dei greci di Istanbul oggi ne restano poco più di 2mila, schiacciati dal nazionalismo turco-musulmani e dalle persecuzioni che sono continuate per tutto il secolo scorso. 

Per molti di loro, la conversione di Santa Sofia in moschea evoca visioni di demoni, di persecuzioni e di morte e a poco serve la presenza del patriarca ecumenico Bartolomeo I nell’ottica di salvaguardare la cultura e il patrimonio cristiano. L’ultima sfida è rappresentata dall’assimilazione, con un ritmo crescente di matrimoni misti che comportano un ulteriore ridimensionamento della componente cristiana nella società turca.