Forum di solidarietà nazionale: Ancora senza giustizia le vittime del pogrom dell’Orissa

Nel 2008 le violenze nazionaliste indù hanno distrutto 395 chiese e luoghi di preghiera dei cristiani Adivasi e Dalit; 6500 case. Uccise almeno 100 persone; 40 donne stuprate, molestate e umiliate; scuole, servizi sociali, centri sanitari distrutti o vandalizzati; più di 75mila persone sfollate; molti casi di conversione forzata all’induismo. Fino ad ora nessun criminale è in prigione. Su 3300 denunce, accettate solo alcune centinaia. Molte famiglie non riescono a tornare nei villaggi d’origine per paura di essere uccisi


New Delhi (AsiaNews) – Aprire i processi per 315 casi di violenza; dare la giusta ricompensa per i morti e le distruzioni come esige un decreto della Corte suprema; favorire lo sviluppo delle minoranze; far partecipare loro rappresentanti alle decisioni amministrative; cancellare la legge anti-conversione in Odisha e rendere le religioni neutrali nei confronti dello Stato. Sono alcune delle urgenti richieste delle vittime dei pogrom dell’Orissa (del 2007 e 2008), contenute in un appello del Forum di solidarietà nazionale (National Solidarity Forum, Nsf), pubblicato in occasione dell’anniversario dei massacri e delle distruzioni di 12 anni fa, che molte organizzazioni celebrano domani, 25 agosto.

Nell’agosto 2008, a pochi giorni della celebrazione dell’indipendenza dell’India, nell’Orissa si è scatenata una campagna di distruzione contro i cristiani e contro le loro istituzioni (chiese, centri, cooperative, lebbrosari, dispensari, …). La scintilla che ha provocato le violenze è stata l’uccisione dello swami Lakhsamananda Sarasvati, uno dei capi del Vhp (associazione nazionalista ed estremista indù), attribuita subito ai cristiani, ma in realtà opera di un gruppo maoista. Per il Nsf, “l’attacco settario organizzato [è stato] il più grande nella storia dell’India negli ultimi tre secoli”.

Uno fra i distretti più colpiti è stato quello di Kandhamal.

Il Nsf elenca le distruzioni: 395 chiese e luoghi di preghiera dei cristiani Adivasi e Dalit; 6500 case; almeno 100 persone uccise; 40 donne stuprate, molestate e umiliate; scuole, servizi sociali, centri sanitari distrutti o vandalizzati; più di 75mila persone sfollate; molti casi di conversione forzata all’induismo.

Per le violenze nel Kandhamal vi sono state 3300 denunce, ma solo 820 sono state accettate dalla polizia; 518 sono state registrate; le altre sono state considerate “false”. Dei 518 casi, 247 sono stati già affrontati; gli altri attendono ancora che si fissi il processo. Fra i casi già affrontati, la maggioranza dei responsabili è stata dichiarata innocente. Al presente nessun criminale delle distruzioni è in carcere. Secondo lo studio di un consigliere della Corte suprema, citato dal Nsf, vi è stata una percentuale del 5,13% di sentenze di condanna. Guardando a tutto il volume di denunce la percentuale è minima: l’1%.

Il Nsf ricorda anche che “Il 2 agosto 2016, la Corte suprema… ha dichiarato che la quantità e l’ampiezza dei compensi non era soddisfacente”. Inoltre la Corte trovava “nauseante” che tanti “trasgressori della legge” non fossero registrati e ordinò la revisione di 315 casi di violenza, fino ad allora rigettati dalla polizia. “Fino ad oggi, - continua il Nsf - i casi non sono stati riaperti anche dopo 4 anni, dovuto anche al fatto che la Corte suprema non ha fissato alcun limite di tempo”.

In più “vi sono case, chiese, istituzioni e organizzazioni volontarie, le cui proprietà sono state distrutte e [il cui nome] non si è mai trovato nella lista di coloro che devono essere compensati. Ci sono molti che devono ancora ricevere la ricompensa per la loro casa distrutta, nonostante l’ordine della Corte suprema. E ci sono altre proprietà e negozi di migliaia di persone che non sono stati inseriti nella lista e nemmeno considerati”.

Infine, il Nsf punta il dito sulla insicurezza dei sopravvissuti: “E’ davvero una tragedia che perfino dopo 12 anni vi siano centinaia di famiglie impossibilitate a ritornare ai loro antichi villaggi per paura di perdere la vita. Ciò ha un alto prezzo sulla loro esistenza. Gli sfollati all’interno del distretto vivono ora in nuove colonie senza accesso alle risorse per vivere. I migranti, che hanno lasciato il distretto per sempre, sono ora nella morsa della pandemia del Covid-19. Le vedove e i parenti degli uccisi stanno combattendo una battaglia legale, ma anche una per sopravvivere, data la paura delle minacce da parte dei fanatici”.