03/06/2009, 00.00
ISRAELE - USA
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Obama cerca amici in Medio Oriente, ma deve bloccare le colonie israeliane

di Hillel Ben-Yishai*
Il viaggio del presidente Usa in Arabia saudita ed Egitto, cerca di rinverdire le amicizie degli Stati Uniti con il mondo arabo e islamico. Ma per questo Obama deve bloccare le colonie israeliane, divenute ormai un pericolo per la sicurezza in America e Medio oriente. Il governo Netanyahu ai ferri corti con Washington.

Gerusalemme (AsiaNews) – Il conflitto fra il governo Netanyahu e l’amministrazione Obama sulla continua colonizzazione di Gerusalemme est e della West Bank domina da tempo sui media in Israele. Politici israeliani e analisti temono la tensione crescente fra Israele e il suo indispensabile alleato; i palestinesi invece si permettono un iniziale, cauto ottimismo pensando che questa volta si fa sul serio e che vi sono reali prospettive di fermare la macchina bellica dell’insediamento dei coloni.

Il governo israeliano ha cominciato a “insediare” israeliani a Gerusalemme est e nella West Bank subito dopo la conquista di questi territori nella guerra del giugno 1967, la “Guerra dei Sei Giorni”, mentre era in carica un governo Labour. La tendenza si è intensificata nel 1977, con l’avvento al potere – per la prima volta in Israele – di un governo capeggiato da un premier di destra (il defunto Menahem Begin). Da allora essa non si è mai fermata, anche se  vi sono stati alti e bassi, e nel 2005 vi è stata il drammatico ritiro dei coloni dalla Striscia di Gaza.

L’Onu: gli insediamenti sono illegali

Fin dall’inizio il Consiglio di sicurezza Onu è stato esplicito nel condannare queste attività come violazioni delle leggi internazionali. In effetti, tali leggi, compresa la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, di cui Israele è parte contraente, proibisce all’occupante belligerante di insediare elementi dell sua popolazione in territori che sono occupati dal belligerante. La potenza occupante deve invece amministrare tali territori a beneficio della popolazione locale, nel periodo che va fino alla conclusione di un trattato di pace, quando tutta l’occupazione deve finire. La fine dell’occupazione legata alla conclusione della pace  è richiesta dalla Carta dell’Onu, che esclude l’acquisizione di territori con la forza.

Per anni, portavoce israeliani  hanno rivendicato davanti alla comunità internazionale che quei territori non erano “occupati”, ma “disputati” e che perciò ad essi non si applicava il divieto di colonizzarli. Ma da queste voci non è mai emerso alcun argomento persuasivo: è infatti ovvio che una parte non può in modo unilaterale trattare come “propria” una zona “disputata”, proprio mentre è in corso la “disputa”!

Il fatto interessante è che nel 2005 il governo del premier Sharon ha contraddetto in modo evidente questa difesa delle colonie, quando il governo, che ha deciso di rimpatriare i coloni israeliani dalla Striscia di Gaza, ha dovuto rispondere ai loro ricorsi presso la Corte suprema. In risposta ai coloni che asserivano di essere ingiustamente strappati dalle “loro case”, l’Avvocatura dello Stato ha capovolto con coraggio decenni di apologetica, affermando che i coloni non possono reclamare diritti di proprietà o diritti a stare a tempo indeterminato nelle “loro case”, nella Striscia di Gaza perché lo status di quell’area, secondo il diritto internazionale, era da definire come un territorio sotto “un occupante belligerante”! La Corte suprema, come è ovvio, ha avallato in pieno la posizione del governo.

Per un certo tempo, al Consiglio di sicurezza Onu, gli Usa hanno sostenuto risoluzioni di contenuto simile, o si sono astenuti lasciandole approvare e rendendole vincolanti. Più tardi, la retorica su questi temi si è sopita e i rappresentanti americani si sono limitati a formule ambigue, come quella che definisce gli insediamenti “un ostacolo alla pace” o – in tono ancora minore – che essi “non sono di aiuto” alla pace. I successivi governi d’Israele hanno pensato che questo assopimento di toni significava che gli Usa in realtà non sono contrari, e che quelle loro frasi dette ogni tanto erano solo una formalità, o un “palliativo verbale” per i palestinesi.

Durante la presidenza di George W.H. Bush, alcuni elementi del governo israeliano hanno sfidato in modo aperto e diretto la posizione Usa. Vale la pena ricordare questo: ogni volta che James Baker, segretario di Stato, arrivava nella regione per promuovere gli sforzi di pace, con grande pubblicità si dava inizio a un nuovo insediamento israeliano. Sebbene Baker non fosse per nulla reticente nel dire il suo pensiero su questo problema, non vi è stata mai una reale pressione Usa per porre fine a tali fatti.

Al contrario, dopo l’operazione “Desert Storm”, l’amministrazione Usa ha preferito concentrarsi sullo sforzo di indurre il governo israeliano (guidato da Yitzhak Shamir, nazionalista di destra), di accettare l’invito alla Conferenza di pace di Madrid (1991), che ha creato un promettente quadro per una pace globale fra Israele e i Pesi arabi. Con la speranza di imminenti grandi passi verso la pace, si preferì non perdere tempo ed energie sulle colonizzazioni, considerate come un tema che andava affrontato verso la fine del processo. Allo stesso modo, negli anni così gravidi di speranza seguiti all’Accordo di Oslo (1993), né l’amministrazione Usa, né le “colombe” israeliane, guidate dal premier Yitzhak Rabin, del Labour, hanno speso un minimo di preoccupazione politica per questo tema, visto come qualcosa che si sarebbe risolto molto presto. Yitzhak Rabin è stato assassinato il 4 novembre 1995 da un estremista nazionalista di destra proprio per fermare i progressi di pace. E intanto le colonizzazioni sono continuate in modo inesorabile. Nei 10 anni seguiti agli Accordi di Oslo (che stabilivano il reciproco riconoscimento di due nazioni, israeliana e palestinese, compreso un cammino graduale verso un trattato di pace), il numero dei coloni nella West Bank (senza contare quelli a Gerusalemme est) sono raddoppiati e da allora è continuato a crescere in modo significativo.

Le colonie rendono impossibile la fine dell’occupazione

I protagonisti della colonizzazione hanno sempre spiegato che il loro intento è rendere impossibile la fine dell’occupazione. Le colonie stanno infatti togliendo ai palestinesi la terra e le scarse risorse d’acqua; allo stesso tempo, continuano a spezzettare il territorio palestinese, separando città e villaggi uno dall’altro, rendendo i trasporti e i movimenti sempre più difficili, costosi, faticosi e talvolta perfino impossibili. In più, gli elementi più fanatici fra i coloni cercano di provocare i palestinesi in modo deliberato. Coloni violenti attaccano contadini palestinesi mentre essi lavorano la terra, picchiano i loro figli mentre ritornano da scuola, sradicano le coltivazioni palestinesi di ulivi e in genere rendono la vita dei palestinesi un inferno sulla terra.

Negli ultimi tempi, la situazione è divenuta critica soprattutto a Gerusalemme est. Qui vi sono coloni che in modo sistematico si insediano nel cuore del quartiere palestinese, rilevando edifici e altre proprietà. Un rapporto dell’Ufficio Onu per la coordinazione degli affari umanitari, diffuso anche nella stampa israeliana, afferma che i coloni israeliani si sono già impadroniti del 35% della Gerusalemme est palestinese. Il governo da parte sua, sta scegliendo sempre più di demolire case di palestinesi: il rapporto Onu rileva che migliaia di case palestinesi a Gerusalemme est sono a rischio di demolizione.

Poiché la colonizzazione continua e il danno da essa provocato diviene sempre più acuto, negli Stati Uniti cresce il timore che tutto questo blocchi ogni possibilità di pace. Le preoccupazioni degli Usa dipendono da un generico rispetto della legge negli affari internazionali, ma anche dal possibile danno che ne viene alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti (e dei suoi amici e alleati). Washington vede infatti la crescente colonizzazione come la causa più acuta dello sconforto sempre più profondo fra palestinesi, arabi e mondo musulmano e come lo strumento più potente per accrescere il reclutamento di giovani nelle file estremiste e nei gruppi terroristi.

Per gli Stati Uniti questa situazione influenza in modo potente la sicurezza del Paese. E infatti, la continua apparente acquiescenza degli Usa alla colonizzazione israeliana, rende gli stessi Usa un obbiettivo dei gruppi violenti e frena i tentativi dell’amministrazione Obama di iniziare un nuovo tipo di rapporti con la maggior parte del mondo arabo e islamico.

Obama: Yes, we can (o no?)

Il governo Netanyahu  cerca di persuadere gli Usa che questi temi sono marginali e che la priorità dell’amministrazione dovrebbe essere quella di rispondere al programma nucleare dell’Iran, con il suo infinito pericolo per la sicurezza mondiale. Ma l’amministrazione di Obama risponde a Israele che proprio per contrastare in modo efficace il pericolo dell’Iran, è necessario costruire alleanze coi Paesi arabi moderati e questo diviene molto difficile, forse impossibile: l’aggressiva colonizzazione israeliana della West Bank e di Gerusalemme est sta infatti infiammando l’opinione pubblica in quei Paesi e danneggiando i loro governi filo-occidentali.

Durante la sua recente visita a Washington, il premier Netanyahu – come riporta la stampa israeliana – ha pure cercato di allentare la posizione Usa, spiegando che ogni mossa da parte sua per contenere l’espansione delle colonie mette a rischio la sopravvivenza della sua coalizione di governo, composto da nazionalisti di destra, sia laici che religiosi, oltre a uno sparuto numero di ministri del Labour. Ma nessuno sa se questo risultato spiacerebbe davvero a Washington…

Data la forte dipendenza di Israele dagli Stati Uniti, non c’è dubbio che alla domanda “Il presidente Obama può ordinare con efficacia ad Israele di ‘fermarsi e desistere’ dalla colonizzazione?” si dovrebbe rispondere. “Sì, lo può!”[1]. Ma lo farà davvero? Questa è un’altra questione e solo nelle prossime settimane  potremo avere una risposta.

 

 * Hillel Ben-Yishai è lo pseudonimo di un’importante personalità diplomatica, che ha chiesto l’anonimato.

 

[1] In inglese: “Yes, he can!” e rifà il verso allo slogan di Obama durante le elezioni: “Yes, we can!”.

 

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