23/07/2015, 00.00
CINA
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Crollo della borsa cinese: il Partito comunista ha protetto “l’aristocrazia rossa”, non il popolo

di Willy Lam
La recente crisi dei mercati finanziari ha rivelato la debolezza delle politiche del presidente Xi in tema di economia. Gli organi di partito elogiano i vertici di governo; analisti ed esperti definiscono gli interventi massicci dello Stato “un passo indietro”. Contro la crisi servono riforme politiche urgenti, finora negate dal Partito. Un'analisi del grande esperto di Cina, per gentile concessione della Jamestown Foundation. Traduzione a cura di AsiaNews.

Hong Kong (AsiaNews) - La recente crisi dei mercati finanziari in Cina ha mostrato la fallacia dell’assunto del Partito comunista cinese (Ccp), secondo cui è possibile promuovere sviluppo economico e riforme senza avviare al contempo cambiamenti politici. Che le autorità debbano usare una raffica di decreti attuativi - incluso il mettere in campo la polizia per indagare quelli che Pechino chiama “perfidi” broker e gestori di fondi - per salvare la situazione, è indice degli strumenti limitati a disposizione della leadership cinese. 

L’abbandono da parte di Pechino dei meccanismi di mercato ha gettato più di un’ombra sul futuro delle riforme nel campo della finanza e in altri settori a esso affiliati. Oltretutto, i 90 milioni di cinesi che hanno acquistato azioni hanno manifestato la loro mancanza di fiducia nel regime, disobbedendo alle direttive di Pechino che imponevano il sostegno ad un mercato vacillante. 

Per tre settimane, a partire da metà giugno, sono evaporati quasi 13,5 trilioni di yuan dalle borse di Shanghai e Shenzhen, mentre gli investitori in preda al panico si precipitavano a vendere i titoli in loro possesso. E se le turbolenze avrebbero comportato una perdita di circa 200 miliardi alla ricca élite del Paese, l’onere reale sarebbe ricaduto sulle spalle degli investitori (i “gumin”) ordinari, fra cui lavoratori a basso reddito, venditori ambulanti, contadini e casalinghe. 

Questi piccoli investitori avrebbero perso ciascuno, secondo le stime, almeno 420mila yuan, una somma enorme se paragonata alla loro ricchezza complessiva [Guangzhou Daily  [Guangzhou], 4 luglio]. E i contraccolpi sulla sfera sociale si sono già fatti intravedere. Casi di suicidio e di violenze  - come l’uomo della città centrale di Nanchang che ha ucciso la moglie perché aveva esaurito le scorte di debiti in azioni per un valore di 1,8 milioni di yuan - si possono trasformare in un’ondata di malcontento verso lo stile di governo del partito comunista [Ming Pao [Hong Kong], 10 luglio; Henan.China.com, 3 luglio]. 

Dal 9 luglio si è registrato un ritorno, seppur minimo, alla fiducia nei mercati; tuttavia è possibile che il mercato cinese dei titoli subisca ancora nel prossimo futuro andamenti oscillanti sul modello delle montagne russe. E se è vero che l’indice della borsa di Shanghai è cresciuto di 5,2 punti nella settimana che si è conclusa il 10 luglio, il più piccolo mercato di Shenzhen ha fatto registrare un calo dell’1,7% nello stesso periodo, con l’indice dei titoli elettronici (meglio noto come il Nasdaq cinese) crollato di 9,6 punti percentuale [Ming Pao, 10 luglio].

Forze economiche ostili?

La leadership comunista cinese ha puntato il dito contro quanti attuano operazioni di vendita allo scoperto, fra cui investitori istituzionali stranieri e di Hong Kong, ritenendoli i responsabili della crisi. Il 9 luglio scorso il Consiglio di Stato ha chiesto al vice-ministro per la Sicurezza dello Stato Meng Qingfeng, un collega del presidente Xi Jinping quando questi era segretario del partito a Zhejiang, di guidare una task force incaricata di indagare le “vendite fraudolente allo scoperto” di un numero non meglio precisato di broker e gestori di fondi [Ta Kung Pao [Hong Kong] 12 luglio; Xinhua, 9 luglio].

Eppure, è chiaro che la colpa dei mercati surriscaldati è in gran parte dovuto allo stesso apparato dello Stato. A inizio anno, alti funzionari e portavoce del partito hanno iniziato a fornire previsioni super-ottimistiche delle quotazioni azionarie. In un editoriale pubblicato il 21 aprile dal People’s Daily, per esempio, si diceva che “il mercato al rialzo era appena iniziato”. Altri commenti hanno mostrato in modo eloquente che “l’indice dei titoli è l’ancora del ‘sogno cinese’”, come recita il mantra favorito del presidente Xi. Di conseguenza, molti investitori hanno creduto che il mercato potesse solo crescere. Dopo tutto, la borsa cinese è sempre stata “un mercato guidato dalla politica” (政策推动市场) per via delle frequenti interferenze dell’apparato statale guidato dal partito [China Economy Net, 13 luglio; People’s Daily, 21 aprile; Phoenix TV, 28 marzo].

Andando oltre gli editoriali e le previsioni degli esperti, c’è la politica: il presidente Xi e il premier Li, quest’ultimo un riformista il cui motto è “lasciate che il mercato faccia del suo meglio”, all’apparenza vogliono pompare liquidità nel mercato economico. Essi hanno avanzato questa proposta, cercando di convincere i cinesi a scavare nei loro risparmi per 130mila miliardi di yuan e investire nel mercato. La ragione è semplice. Nonostante il fatto che la Banca popolare di Cina (Pboc) ha più volte abbassato i tassi di interesse, così come i rapporti delle riserve obbligatorie delle banche (Rrr), l’economia resta tiepida e mette così a rischio l’obiettivo del 7% di crescita del Pil per quest’anno. 

Inoltre, le imprese statali - molte delle quali sono pesantemente indebitate - hanno beneficiato del picco dei prezzi delle loro azioni. Secondo Bank of America Merrill Lynch, i principali azionisti delle società (inclusi gli alti livelli dirigenziali) hanno venduto 360 miliardi di yuan in azioni nei primi cinque mesi del 2015, confrontati ai 190 miliardi di yuan venduti in tutto il 2014. Fan Di, professore di economia all'università di Pechino (Beida) ed ex banchiere, ha sottolineato che “le imprese di Stato sono le principali beneficiarie del mercato azionario”. “Le altre parti ad aver tratto benefici - aggiunge - sono il governo, gli agenti di borsa, i professionisti della finanza”. Fan stima che il 90% degli investitori non hanno mai guadagnato nulla dal mercato [Reuters, 10 luglio; Eastmoney.com [Shanghai], 25 febbraio]. L’atmosfera simile a un casinò che si respira all’interno della borsa è stata esacerbata dal fatto che la Pboc e la China Securities Regulatory Commission (Csrc) hanno concesso margini di indebitamento da parte degli investitori, per facilitare la corsa all’acquisto di titoli a inizio anno [Caixin [Beijing], June 29; China Daily, May 7]. 

Tuttavia, le misure volte a generare sentimenti rialzisti impallidiscono di fronte alla sfilza di editti governativi straordinari emessi per bloccare la fuga precipitosa durante le fasi concitate di fine giugno e inizio luglio. Il 28 giugno, con una mossa inusuale, la Pboc ha in contemporanea abbassato i tassi di interesse e la quota delle riserve obbligatorie per le banche (PBOC, 28 giugno). Poco dopo, Pechino ha posticipato in data da destinarsi una valanga di nuove offerte pubbliche di titoli societari e ordinato ai fondi pensione controllati dal governo di comprare cumuli di titoli e azioni. Il 4 luglio il Consiglio di Stato ha convocato l’amministratore delegato della più importante società di intermediazione del Paese per un incontro di emergenza a Pechino, durante il quale gli è stato detto di “comprare e non vendere mai” [Xinhua, 4 luglio; Sohu.com]. Pechino ha inoltre allestito un fondo di emergenza di 42 milioni di dollari per aiutare i mediatori a dare un nuovo impulso al mercato. 

A questo provvedimento ha fatto seguito la direttiva impartita dalla Csrc il 7 luglio e rivolta a istituti e individui che possiedono il 5% o più di una compagnia; essi devono astenersi dal vendere per almeno sei mesi. Due giorni più tardi, metà delle 2.800 compagnie inserite nelle liste delle borse di Shanghai e Shenzhen hanno sospeso il titolo, causando la chiusura virtuale del mercato azionario [Reuters, 10 luglio; Ming Pao, 5 luglio; China Economy News, 30 giugno].

Dopo il blocco temporaneo delle vendite, il Global Times voce ufficiale del partito ha elogiato la “squadra nazionale” - riferendosi alla leadership Xi-Li - per aver preso misure risolute ed efficaci per contrastare il caos finanziario. Tuttavia, funzionari cinesi e stranieri temono che il ritorno di interventi massicci dello Stato e altri tipi di azioni sul mercato possano indicare un sostanziale passo indietro nelle riforme. In riferimento alle ripetute interferenze di Pechino nei mercati, il ministro del Tesoro Usa Jack Lew ha sottolineato: “Spero che questo non rallenti il cammino di riforme… Se la reazione è quella di bloccare le riforme, questo costituirà un freno al processo” (Reuters, 8 luglio; VOA, 8 luglio). Hu Xindou, professore alla Beijing University of Technology e voce critica del governo, invita con forza l’esecutivo a minimizzare gli interventi dello Stato e ad accelerare le riforme nel settori finanziario e della sicurezza: “Il governo può risolvere i problemi legati al mercato finanziario solo attraverso le riforme. Fra queste riforme vi è una forte restrizione delle offerte pubbliche (Ipo), maggiore trasparenza nel fornire le informazioni, punizioni più severe contro le compagnie disoneste e il miglioramento della gestione delle imprese” [Hu Xindou Blog, 9 luglio].

Riforma del mercato finanziario, con caratteristiche cinesi

Dall’ascesa al potere alla fine del 2012, Xi Jinping ha più volte ripetuto l’imperativo di rafforzare “l’ideologia, le istituzioni e la strada del socialismo con caratteristiche cinesi”. Il capo del partito conservatore ha già messo al bando i gruppi di discussione su alcuni temi chiave, fra cui le leggi internazionali, le idee democratiche dell’Occidente, la libertà di espressione e l’indipendenza della magistratura [Apple Daily [Hong Kong] 9 maggio 2014; People’s Daily, 31 maggio 2013]. Come aveva già più volte avvertito in passato l’ex premier Wen Jiabao, le riforme economiche non possono avere successo in mancanza di una liberalizzazione politica [China.com.cn, 14 marzo 2012; Jinghua Times [Nanjing], 12 ottobre 2010]. La crisi finanziaria ha mostrato come l’arte di governo del presidente Xi - che concentra tutto il potere decisionale nei vertici del partito e usa i diktat per dare seguito alle politiche governative - è in realtà una strada senza uscita. 

La bolla speculativa riflette anche le ricadute di 26 anni di congelamento delle liberalizzazioni politiche imposto dal Partito comunista. In assenza di quei pesi e contrappesi che possono essere garantiti da una riforma politica, le tanto decantate direttive di alto livello di Xi (顶层设置) in materia di economia possono rivelarsi un disastro. Mentre in molte nazioni dell’Asia, i media agiscono da contraltare al potere dello Stato individuando le carenze della politica, il partito comunista cinese ha imposto una stretta censura sia ai media stampati che sulla rete. A dispetto dell’impegno retorico di Xi verso le riforme legali, il modo draconiano in cui il governo centrale ha usato le banche e gli intermediari per smorzare una crisi in apparenza creata da sè mostra il suo totale disprezzo per un giusto processo. La mancanza di supervisione o di una normativa volta alla regolamentazione implica che né il Parlamento - che ha la sola funzione di vidimare le norme - né l’Assemblea nazionale del popolo, né la magistratura sono in una posizione valida per frenare gli eccessi dell’apparato statale uni-partitico [Inmediahk.com [Hong Kong], 10 luglio]. Durante il crollo del mercato azionario, nessun membro dell’Assemblea o della Conferenza politica consultiva del popolo cinese - il più importante organo consultivo della Cina - ha fatto un commento su come sventare la crisi. Questo a fronte delle reiterate affermazioni di Xi, secondo cui la sua amministrazione si sarebbe attenuta nel modo più rigoroso a quanto prevede la legge e il diritto in Cina [Xinhua, 29 marzo 2014]. Inoltre, al contrario della filosofia tanto sbandierata del “servire il popolo”, la leadership comunista cinese ha mantenuto come priorità assoluta quella di arricchire “l’aristocrazia rossa”, il maggior beneficiario dell’altalena dei mercati. Come sottolinea l’esperto di politica cinese He Qinglian, il mercato azionario del Paese è una “macchina tigre che divora i beni delle classi inferiori”. Nessun membro di partito o unità governativa all’indomani della crisi ha fatto alcuna promessa su una revisione delle operazioni nelle due borse [Radio Free Asia, 6 luglio].

La leadership di Xi sembra aver escluso la democrazia parlamentare e ogni possibile deviazione futura dal dominio di stampo autoritario del partito unico. La mancanza di un forte rimbalzo dei prezzi, a dispetto degli enormi sforzi governativi di lanciare messaggi positivi indica che gli investitori ordinari hanno perso fiducia nei “mercati guidati dalla politica”. La borsa è così diventata una piattaforma indiretta per i gumin, per dimostrare il loro malcontento in merito all’efficacia d’azione dell’apparato retto dal partito unico. Vi sono pochi segnali secondo cui gli investitori - che hanno perso molto - stiano pianificando proteste anti-governative o altre azioni destabilizzanti. Tuttavia, alti funzionari fra cui il presidente del Csrc Xiao Gang sono finiti per giorni al centro della gogna dei social network per non aver saputo riformare il mercato azionario. I gumin hanno inoltre mostrato la loro disapprovazione verso la leadership di Xi rifiutandosi di ascoltare le direttive governative finalizzate alla produzione di un rimbalzo del mercato [Apple Daily, 8 luglio, Hong Kong Economic Times, 7 luglio].

Tassare i poveri 

Inoltre, le modalità in base alle quali l’amministrazione Xi ha gestito il mercato azionario ha fatto emergere uno dei problemi più importanti della Cina: il divario sempre più grande fra ricchi e poveri. Un paio di giornali del continente ha indicato che, in media, i gumin hanno perso ciascuno fino a 410mila yuan, l’equivalente di otto anni di paga di un operaio, nei 20 giorni che hanno preceduto il 3 luglio [Eastmoney.com, July 5; Qianjiang Daily [Hangzhou], July 4]. Di recente il grande economista Mao Yushi ha scritto sul suo blog che un mercato azionario iper-speculativo si è trasformato in un casinò, dove i potenti - compresi quanti hanno informazioni segrete circa le politiche governative e linee di credito privilegiate dalle banche - predano i più deboli. “Il caos non produce ricchezza - conclude - ma concentra solo più ricchezza nelle mani della minoranza”. [Qq.com, 10 luglio]. 

Se l’amministrazione del partito comunista è vista come cinica manipolatrice dei mercato per propri fini, fra cui centrare gli obiettivi di crescita del Pil e garantire ulteriori benefici alle imprese statali e agli uomini di affari ben inseriti, gli effetti a lungo termine della crisi potrebbero avere un impatto devastante. Fra le persone comuni si è già sollevato più di un dubbio sul cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi”. L’incapacità della leadership guidata da Xi di adottare adeguate contromisure per riportare la giustizia e l’integrità nel mercato dei titoli azionari potrebbe provocare come risposta una forte richiesta di riforme politiche, che finora il Partito comunista cinese ha sempre negato ai suoi componenti. 

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