14/06/2016, 10.57
MYANMAR
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Dalai Lama: Aung San Suu Kyi parli in modo più aperto del problema dei Rohingya

Alla minoranza musulmana non è riconosciuta la cittadinanza ed essa viene tenuta segregata in campi profughi. La maggioranza buddista birmana si oppone alla presenza dei musulmani nel Paese. In un’intervista alla Reuters, Tenzin Gyatso ha detto di aver discusso del problema con la “Signora”. Egli condanna l’atteggiamento dei nazionalisti: “Se ci fosse il Buddha, accoglierebbe questi fratelli e sorelle musulmani”.

 

Yangon (AsiaNews) – In quanto premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi ha una responsabilità morale “nell’ammorbidire le tensioni fra la maggioranza buddista e la comunità musulmana” del Myanmar. La leader della Lega nazionale per la democrazia, vincitrice delle ultime elezioni, “dovrebbe parlare in modo più aperto” della questione della minoranza Rohingya, mal sopportata e non riconosciuta nel Paese. È quanto ha riferito alla Reuters il Dalai Lama durante un’intervista concessa ieri a Washington.

Il leader buddista ha affermato di aver incontrato più volte la “Signora” e di averle esposto la sua preoccupazione. Suu Kyi avrebbe risposto che la situazione è “molto complicata”. Tenzin Gyatso ha aggiunto che alcuni monaci buddisti birmani “sembrano avere un’attitudine negativa nei confronti dei musulmani”, ma che essi “dovrebbero ricordarsi del volto del Buddha”. Il riferimento è al Ma Ba Tha, gruppo ultranazionalista che da tempo si oppone la presenza dei Rohingya sul suolo birmano e vede con sospetto le religioni diverse dal buddismo (compreso il cristianesimo). “Se ci fosse Buddha – ha affermato il Dalai Lama – egli di sicuro proteggerebbe questi fratelli e sorelle musulmani”.

Il Myanmar è teatro dal 2012 di una lunga serie di violenze confessionali che hanno causato almeno 300 morti e 140mila sfollati, la maggior parte dei quali musulmani Rohingya dello Stato Rakhine. Essi, immigrati dal Bangladesh, non sono considerati cittadini birmani e vivono in isolamento, rinchiusi in campi profughi. A migliaia tentano la fuga ogni anno verso altri Paesi del sud-est asiatico.

La questione dei Rohingya è stata risollevata lo scorso aprile, quando l’ambasciata statunitense a Yangon ha espresso le condoglianza per un incidente nautico in cui morirono diversi musulmani. In quell’occasione, i nazionalisti birmani criticarono in modo feroce l’uso del termine “Rohingya”, chiedendo di appore agli islamici quello di “bengali”, sottolineando in modo implicito la loro natura di immigrati irregolari.

Durante la visita del Segretario di Stato americano John Kerry il 22 maggio scorso, Aung San Suu Kyi è intervenuta sull’argomento invitando entrambe le parti ad evitare l’uso di “termini emotivi che rendono più difficile trovare una soluzione pacifica al problema”.

Qualche giorno fa il governo birmano ha annunciato un nuovo pacchetto di leggi volto a tutelare l’armonia religiosa e il rispetto di tutte le fedi. Lo scorso 30 maggio, inoltre, Yangon ha formato una nuova Commissione che sarà guidata da Suu Kyi e che si occuperà della pacificazione dello Stato Rakhine, dove alcuni gruppi ribelli combattono ancora il governo centrale.

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