16/09/2020, 12.09
INDONESIA
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Ex investigatore Onu: Un nuovo appello per i Rohingya

di Ati Nurbaiti

Per Marzuki Darusman, il gruppo etnico vittima di atrocità in Myanmar deve essere aiutato a determinare il proprio futuro. Necessario accrescere la pressione internazionale su Naypyidaw e sostenere il Bangladesh, che ospita un milione di rifugiati della minoranza islamica. Paesi terzi, soprattutto nell’Asean, devono accogliere i Rohingya.

Jakarta (AsiaNews) – Le prospettive sembrano fosche per i Rohingya, ma la speranza di un futuro migliore per una tra le minoranze più perseguitate al mondo è ancora viva. È quanto ha dichiarato ad AsiaNews un ex investigatore delle Nazioni Unite sulle atrocità nel Myanmar, secondo cui il gruppo etnico “apolide” deve essere aiutato a determinare il proprio futuro. A tale scopo, egli sostiene, è necessario rilanciare la pressione internazionale su Naypyidaw e sostenere il Bangladesh, che ospita circa un milione di rifugiati Rohingya.

A inizio settembre, circa 30 Rohingya sono morti mentre viaggiavano in mare per raggiungere la Malaysia dal loro rifugio in Bangladesh. Altri 395 rifugiati, che vagavano da sette mesi e tentavano di riunirsi con le proprie famiglie, sono poi sbarcati ad Aceh, nel nord dell'Indonesia. In seguito, due di loro sono morti per una malattia respiratoria, facendo temere possibili infezioni da Covid-19.

Il Bali Process, un forum di nazioni della regione Asia-Pacifico che comprende anche Indonesia e Australia, è criticato per non essere stato in gradi di nell'assistere i “boat people” Rohingya, per lo più vittime del contrabbando.

Marzuki Darusman, che ha presieduto la missione d’inchiesta Onu sulle violenze in Myanmar contro i Rohingya, ha elencato “quattro misure più urgenti” per porre fine alle sofferenze della minoranza musulmana: coinvolgere i Rohingya nei colloqui sul loro futuro, cioè riconoscerli come parte nel processo; mobilitare risorse e fondi per assistere il Bangladesh; affrontare il discorso con i Paesi terzi disposti a fornire asilo ai rifugiati che temono di tornare in Myanmar; riattivare i meccanismi multilaterali all’Onu per consentire che tutte queste misure accendano i riflettori sul comportamento del Myanmar.

Il team indipendente dell’Onu aveva messo in luce le “intenzioni genocide” dell’esercito del Myanmar contro la minoranza, che nel 2017 hanno spinto oltre 725mila persone a fuggire dal Paese. I Rohingya, chiamati “Bangla” nell’ex Birmania, sono accusati dalle autorità di Naypyidaw di essere migranti illegali provenienti dal Bangladesh. Per la maggior parte sono apolidi, poiché non possiedono i documenti richiesti dalla legge del Myanmar sulla “cittadinanza delle etnie non riconosciute in modo ufficiale”.

L’11 settembre, dopo che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha dibattuto sulla situazione in Myanmar, otto Paesi, tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania, hanno chiesto a Naypyidaw di consentire subito “il ritorno sicuro, volontario, sostenibile e dignitoso dei rifugiati”, e di rispettare gli ordini della Corte internazionale di giustizia, che a gennaio ha ordinato al governo locale di “prevenire” il genocidio dei Rohingya.

Il consigliere di Stato e ministro degli Esteri del Myanmar Aung San Suu Kyi ha insistito che le uccisioni sono il risultato di una “guerra interna” contro gruppi terroristi. Nei giorni scorsi, il Parlamento europeo ha escluso Suu Kyi dalla comunità del Premio Sakharov, che aveva ricevuto nel 1990 per il suo impegno contro la dittatura militare. La Corte penale internazionale ha aperto invece un’indagine per verificare se i leader militari del Myanmar abbiano commesso crimini su larga scala contro i Rohingya.

Nel corso della loro recente riunione ministeriale, i Paesi Asean (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, di cui il Myanmar è membro, si sono appellati a Naypyidaw perché elabori un piano di rimpatrio di migliaia di Rohingya, per il quale sono pronti a offrire sostegno.

Per molti osservatori, le pressioni sul Myanmar si sono dimostrate inefficaci. “I leader Asean si preoccupano più dei rapporti tra gli Stati membri che delle popolazioni oppresse, che hanno il dovere di proteggere”, ha detto Kyaw Win, leader del Burma Human Rights Network di Londra.

Oltre alla Cina, i principali partner economici del Myanmar sono i Paesi occidentali e alcune nazioni Asean (Singapore, Malaysia e Thailandia). Alla luce di ciò, “gli Stati dell’Asean sono davvero disposti ad affrontare il Myanmar?”, si domanda Rosalia Sciortino, direttrice del SEA Junction di Bangkok.

Secondo Darusman, il seggio non permanente dell’Indonesia nel Consiglio di sicurezza mette Jakarta in una buona posizione per facilitare le iniziative multilaterali sul rispetto dei diritti umani in Myanmar. Queste sono state avviate sotto l’egida del segretario generale dell’Onu, il relatore speciale sui diritti umani in Myanmar e l’inviato speciale delle Nazioni Unite nel Paese asiatico.

"Serve creatività – afferma Darusman – invece di ‘interventi irrealistici’, come la richiesta di modifiche alla legge sulla cittadinanza del Myanmar”. Egli cita la cooperazione globale per i rifugiati del Vietnam negli anni ‘70, ospitati sull’isola indonesiana di Galang, come un esempio “straordinario” da seguire.

“Se non altro per il suo interesse economico”, osserva Darusman, il principale alleato del Myanmar, la Cina, ha fornito fondi e mezzi di trasporto per il rimpatrio sicuro dei rifugiati. Pechino sta costruendo una diga idroelettrica e un porto nello Stato di Rakhine, la patria dei Rohingya, come parte della sua “Belt and Road Initiative”, che si estende dall’Asia all’Europa.

Darusman e Kyaw Win hanno avvertito che il mancato contenimento della violenza contro la minoranza musulmana potrebbe aggravare gli abusi contro altri gruppi etnici minoritari in Myanmar e altrove.

“I Rohingya hanno rifiutato il rimpatrio in Myanmar senza garanzie per la propria sicurezza, tuttavia trovare Paesi terzi pronti ad accoglierli è al momento difficile”, ha detto Sciortino. “Paesi come Australia e Usa, che tradizionalmente avrebbero accolto i rifugiati, hanno adottato politiche anti-immigrazione, e l’Europa deve far fronte agli arrivi dal Medio Oriente e dall'Africa”.

Per Sciortino, almeno le nazioni Asean potrebbero “dividersi” i rifugiati tra loro. Il problema è che anche un Paese come la Malaysia, più solido dal punto di vista economico rispetto ad altri della regione, ha dichiarato di non poter più accogliere altri Rohingya, oltre ai circa 150mila che già ospita.

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