25/03/2013, 00.00
HONG KONG
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Hong Kong “razzista”, vieta la residenza permanente alle domestiche

La Corte finale d’Appello ribalta la sentenza a favore di Evangeline Banao Vallejos, cooperatrice domestica filippina che aveva ottenuto dall'Alta Corte il permesso di chiedere la residenza permanente. Dopo due anni di dibattiti si chiude uno dei casi più controversi dell’ex colonia britannica

Hong Kong (AsiaNews) - Dopo quasi due anni di battaglie legali, la Corte finale d'Appello di Hong Kong ha deciso che le collaboratrici domestiche straniere che lavorano nel Territorio non possono accedere alla residenza permanente. Secondo i giudici supremi "le aiutanti domestiche straniere sono obbligate a tornare nel Paese d'origine alla fine del contratto e non possono richiedere la cittadinanza, che non è fra gli scopi del loro lavoro qui".

Questa sentenza blocca le speranze di circa 117mila lavoratrici straniere - per lo più colf di nazionalità filippina o indonesiane - che seguivano con entusiasmo il caso di Evangeline Banao Vallejos, cooperatrice domestica filippina che aveva ottenuto dall'Alta Corte il permesso di chiedere la residenza permanente, dopo aver passato decenni a lavorare nel Territorio. Al momento altre categorie di stranieri - come cuochi e imprenditori - possono accedere alla residenza.

Il 30 settembre del 2011, dopo mesi di dibattiti, l'Alta Corte di Hong Kong si era pronunciata a favore della Vallejos, che oggi si dichiara "senza parole ma rassegnata". Il suo avvocato, Mark Daly, dichiara: "Anche se rispettiamo la sentenza siamo in disaccordo con essa. La decisione non rispecchia i valori che dovremmo insegnare ai giovani e alla popolazione della nostra società". Eman Villanueva, portavoce del Corpo di coordinamento per i migranti asiatici, aggiunge: "Il pronunciamento di fatto crea i presupposti per lo sfruttamento e l'esclusione sociale dei lavoratori stranieri a Hong Kong".

Secondo le leggi sull'immigrazione in vigore, tutti gli stranieri che risiedono per sette anni consecutivi nel territorio possono richiedere il certificato di "residenti permanenti": questo non vale però per le collaboratrici domestiche, che non possono presentare la richiesta. Per la legge locale, questo vuol dire che non possono accettare un secondo lavoro; non possono accedere ai servizi sanitari semi-gratuiti e sono costrette ad accettare i contratti sul lavoro imposti dal governo, che prevedono un salario minimo molto basso.

Il governo del Territorio, filo-cinese, teme l'invasione delle richieste da parte degli stranieri: al momento risiedono nell'ex colonia britannica circa 7,2 milioni di persone. Secondo un partito anti-immigrati, una sentenza favorevole aprirebbe le porte a 500mila persone, inclusi coniugi e figli dei lavoratori, e questo aumenterebbe di 25 miliardi di dollari di Hong Kong (circa 2,5 miliardi di euro) la spesa per il welfare. Inoltre, secondo l'esecutivo attuale, il tasso di disoccupazione "potrebbe passare dal 3,5 al 10%".

In ogni caso la Corte si è rifiutata di chiedere il consiglio del governo cinese sulla questione, come aveva proposto l'esecutivo del Territorio. Secondo Daly "almeno questo è un buon segno: mentre i nostri compatrioti in Cina cercano di ottenere lo stato di diritto, qui a Hong Kong dobbiamo salvaguardarlo e aprire la strada a loro".

 

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