13/05/2019, 14.14
LIBANO - VATICANO
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Il Libano piange la scomparsa del patriarca Sfeir, custode dell’unità nazionale

di Fady Noun

Nato nell’anno della proclamazione del Grande Libano, egli è stato testimone di tutti i principali eventi che ne hanno caratterizzato la storia recente. Patriarca Raï: il Paese perde una “icona”. Fra le sue preoccupazioni l’unità e l’indipendenza della nazione. Egli ha saputo sfidare il muro di “intimidazione e terrore” eretto dai siriani.

Beirut (AsiaNews) - Il patriarca Nasrallah Boutros Sfeir, 76mo successore di San Marone, fondatore della Chiesa maronita, si è spento il 12 maggio, vittima di una infezione polmonare, a qualche giorno dal suo 99mo compleanno. Il porporato era nato infatti il 15 maggio 1920. Egli verrà tumulato giovedì 16 maggio a Bkerké, sede del patriarcato. Il Paese osserverà il lutto nazionale e gli impiegati degli uffici pubblici non lavoreranno per quel giorno. 

Nato nello stesso anno della proclamazione del Grande Libano, all’indomani della Prima guerra mondiale, il patriarca è stato il testimone di tutti i grandi rovesciamenti che hanno contraddistinto la vita del Libano fin dalla sua nascita “internazionale” nel 1920. La proclamazione della sua Indipendenza (1943), la creazione dello Stato di Israele (1948) e l’arrivo della prima ondata di rifugiati palestinesi, l’uscita delle truppe siriane (2005) dopo la ritirata nel 2000 dell’esercito israeliano, entrato una prima volta in Libano nel 1978. E ancora, i 15 anni di guerra civile che hanno stravolto il Paese (1975-1990), senza dimenticare l’invasione pacifica, ma con gravissime conseguenze, della marea di rifugiati siriani in fuga dopo lo scoppio della guerra in Siria (2011). 

Egli ha ricoperto la carica di patriarca dal 1986 al 2011, anno durante il quale, sotto la pressante spinta del Vaticano (e dell’età), ha ceduto il posto a uno più giovane, il patriarca Béchara Boutros Raï. Ed è stato proprio quest’ultimo che, annunciandone il decesso durante l’omelia domenicale, ha sottolineato che con lui il Libano perde “una icona”. Una icona di pietà, competenza, forza di fronte alle avversità e a tutto ciò che poteva snaturare il Libano dal suo vivere comune islamico-cristiano. 

In pratica, tutta la carriera ecclesiastica del patriarca Sfeir è trascorsa nella sede patriarcale di Bkerké. Nato a Reyfoun, unico maschio di sei figli, Nasrallah Sfeir è entrato in seminario contro il volere dei propri genitori. Egli è stato ordinato sacerdote nel 1950. Conosciuto per la sua intelligenza, pari solo alla sua discrezione, fa il suo ingresso nella segreteria della sede patriarcale di Bkerké nel 1956. Nel 1962 viene consacrato vescovo e resta al servizio dei patriarchi Boulos (Paul) Méouchy e Antonios Khoreiche. Può così osservare da vicino il montare dei pericoli che porterà alla guerra civile libanese e ai tentativi mancati del cardinale Achille Silvestrini, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, di mettere fine alla spirale di violenze in Libano. 

Oltre a tutti gli omaggi sinceri e affettuosi che gli hanno reso le figure pubbliche libanesi, il patriarca Sfeir resterà l’uomo dei due grandi momenti della vita nazionale: quello della visita di Giovanni Paolo II in Libano (1997) e quello dell’uscita nel 2005 delle truppe siriane dal Libano, sotto l’effetto di una formidabile rivolta pacifica il 14 marzo 2005, a un mese di distanza dall’assassinio del Primo Ministro Rafic Hariri (14 febbraio 2005). Due grandi momenti contraddistinti dalle maggiori preoccupazioni di questo uomo di Chiesa, che non ha mai aspirato a ricoprire un ruolo politico: la preoccupazione per l’unità del popolo libanese e per la sua indipendenza, la sua libertà. 

Ed è proprio lo scopo primario dell’unità del popolo libanese che ha portato il capo della Chiesa maronita ad accogliere con favore la decisione di papa San Giovanni Paolo II di dedicare al Libano un'Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi nel 1995. 

In una lettera indirizzata a tutti i vescovi della Chiesa cattolica nel 1989, Giovanni Paolo II aveva ripreso una formula che farà fortuna nella vocazione storica di un Libano che è “più di una nazione [...], ma un messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per l’Oriente e l’Occidente”. 

Questo messaggio, basato sulla convivialità, servirà da bussola al patriarca Sfeir nei grandi momenti della vita nazionale, in particolare nell’accordo di Taëf (1989), che scrive la parola fine alla guerra civile. Un accordo che egli aveva messo a punto con il presidente della Camera, Hussein Husseini, “fino all’ultima virgola”, secondo quanto riferisce l’attuale patriarca Béchara Boutros Raï. L’approvazione di questo accordo valse al patriarca una delle più grandi umiliazioni della sua vita, quando i partigiani del generale Michel Aoun, ostile all’accordo, invasero il patriarcato maronita e usarono violenza fisica nei confronti del patriarca stesso. 

La preoccupazione per l’unità dei libanesi - che non vuol dire l’uniformità o la scomparsa delle particolarità comunitarie - era pari solo a quella della sua indipendenza. In realtà, il patriarca Sfeir non aveva alcuna illusione sul ruolo manipolatore e perverso che veniva giocato dalla Siria in Libano, e la sua responsabilità in un’ottica di destabilizzazione. 

Nel marzo 1986, un mese prima dell’elezione del patriarca Sfeir, la Santa Sede aveva promosso un piano di uscita dalla guerra che il cardinale Achille Silvestrini, principale artefice della diplomazia vaticana sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, è stato incaricato di mettere in atto. Arrivato in Libano, egli proverà soprattutto a dar vita a un incontro nazionale islamico-cristiano. Tuttavia, egli non riuscirà a far breccia nel muro di intimidazioni e di terrore che la Siria è stata capace di innalzare fra i libanesi. 

All’epoca, per parlare a una personalità cristiana, una figura politica musulmana doveva in via preventiva ottenere l’autorizzazione dei servizi segreti siriani e, in caso di benestare, rendere conto alla fine dell’incontro di ciò di cui si era discusso. Ed è proprio questo “muro di intimidazione e di terrore” che il patriarca e il sinodo dei vescovi maroniti hanno osato sfidare reclamando, nel 2000, la ritirata delle truppe siriane dal Libano, in conformità all’accordo di Taëf. 

Sarebbe fin troppo lungo rievocare tutta la storia della guerra in questo breve articolo.  Tuttavia, basterà dire che se il patriarca ha “infranto il tabù” siriano, è in conseguenze dei colpi inferti da Hezbollah che gli israeliani, anch’essi coinvolti nel conflitto libanese, hanno deciso di ritirare le loro truppe dal Libano (24 maggio 2000). Una occupazione che è servita alla Siria come pretesto per mantenere la sua presa. 

I siriani hanno lasciato il Libano solo nel 2005, dopo l’assassinio del Primo Ministro Rafic Hariri e la rivolta del 14 marzo, ribattezzata la “Rivoluzione dei cedri”. 

Nonostante il dolore e lo spargimento di sangue, l’assassinio di Rafic Hariri unirà i libanesi - con la sola eccezione di Hezbollah - nella loro ricerca di indipendenza. Il 14 marzo resterà dunque un’ora di gloria per i libanesi, così come per il patriarca Sfeir. E non sarà la sola. Nel 1997, con la visita in Libano di Giovanni Paolo II, venuto a consegnare ai libanesi l’esortazione post-sinodale, il patriarca conosce anche un’ora di gloria e di consolazione. E di unità. La visita storica di un patriarca nel palazzo di Moukhtara e la sua accoglienza alla montagna drusa da parte di Walid Joumblatt, sono un altro di questi momenti. Tutti i suoi più importanti momenti di gloria hanno rappresentato al contempo una occasione di unità nazionale. 

Le persone a lui più vicine raccontano che il patriarca Sfeir, che essi hanno paragonato a una sfinge tanto le sue parole all’apparenza semplici, potevano invece essere fraintese, ha attraversato in serenità il passaggio fra i due mondi. All’indomani del 14 marzo e della partenza delle forze siriane dal Libano, egli ha dichiarato di aver ormai avuto la prova che esiste una Provvidenza per le nazione, così come ve n’è una per le persone. A questi intimi, il patriarca emerito amava ripetere questo motto attribuito a papa Giovanni XXIII che, passato attraverso gli stravolgimenti del Concilio Vaticano II, aveva perduto il sonno. “Dormi Angelo, dormi, che esiste una Provvidenza” amava ripetersi per ritrovarlo.

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