18/01/2010, 00.00
VATICANO - EBREI
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Il Papa alla sinagoga di Roma: tenere conto di Israele e della Chiesa in Israele

di David-Maria A. Jaeger, ofm*
All’incontro di Benedetto XVI con la comunità ebraica di Roma erano invitati anche il Nunzio apostolico, il Custode di Terra Santa e il Patriarca latino di Gerusalemme. Il rapporto fra lo Stato d’Israele e la Chiesa in Terra Santa è centrale per il futuro del dialogo cattolici-ebrei.
Roma (AsiaNews) – Pare essere ormai divenuto de rigueur la visita del Pontefice regnante alla Grande Sinagoga di Roma - come, per esempio, la visita al Quirinale (e quella del Presidente della Repubblica italiana al Palazzo Apostolico Vaticano) – ed è bene che lo sia: reca conforto. Certo, si tratta sempre e comunque di scelte sovranamente libere del Papa, ma attese, prevedibili. Il carattere davvero “storico”, l’importanza propriamente “epocale”, sono inevitabilmente riservati alla prima occasione, che essendo “prima nella storia” è per ciò stesso necessariamente irripetibile. Se ora la visita, che il Sommo Pontefice si è degnato di compiere alla Grande Sinagoga di Roma il 17 gennaio 2010, pur essendo la seconda, dopo quella prima del Venerabile Giovanni Paolo II (nel 1986), potrebbe comunque rivestire, agli occhi dei futuri storici, un carattere “epocale” per diritto proprio. Ciò potrebbe essere dovuto ad una circostanza davvero singolare, dai più per il momento poco avvertita: con il Papa, in Sinagoga, si provvedeva alla presenza, delle massime Autorità della Chiesa Cattolica in Israele: il Nunzio Apostolico, il Custode di Terra Santa e il Patriarca latino di Gerusalemme. I rispettivi territori propri della missione del Custode e del Patriarca si estendono, è vero, ben oltre i confini dello Stato Ebraico, ma lo comprendono per intero. La loro presenza - comunque sia avvenuto, forse a vario titolo - mi pare estremamente eloquente di per sé stessa. In effetti, essa rispecchiava – ed evidenziava - opportunamente la centralità di Israele nei rapporti tra i cattolici e gli ebrei ovunque.
 
Per decenni i funzionari di organizzazioni ebraiche, che partecipavano ai dialoghi “strutturati” ossia formali con la Chiesa Cattolica in genere, e con la Santa Sede in specie, insistevano nel volere dalla Chiesa un riconoscimento del ruolo centrale dello Stato Ebraico nella coscienza che gli ebrei di oggi avrebbero della propria identità. I partecipanti cattolici, invece, doverosamente fedeli agli schemi propri della nostra religione cattolica, faticavano a collocare una realtà politica, una entità temporale e contingente, uno Stato, all’interno di quello che obbligatoriamente ritenevano dovesse essere un dialogo dall’indole religiosa, e quindi spirituale e morale. La fede cristiana, come già la predicazione dei Profeti di Israele, non consente di attribuire un valore religioso intrinseco a qualsiasi entità meramente umana, contingente, temporale, che invece andrebbe giudicata secondo la sua conformità in qualsiasi momento dato con i valori e le esigenze della legge divina.
 
Ma, in verità, il dialogo con i protagonisti della religione ebraica, dalle diverse “denominazioni” (ortodossa, conservatrice, riformata, con le quasi infinite sfumature al loro interno), è soltanto una dimensione del rapportarsi al Popolo Ebraico, che comprende - oramai da molto tempo – molti componenti che non si riconoscono nella religione degli avi, non aderiscono effettivamente ad essa e non la praticano, ma che pure valorizzano profondamente la loro identità ebraica, i loro legami di solidarietà con tutto il Popolo. Per questi in particolare – ma non solo per loro - l’identità ebraica, nel vissuto, viene definita dalla simpatia, dal sostegno, dalla preoccupazione per lo Stato di Israele. É una realtà che esula, sì, dai nostri schemi precostituiti - perché noi cattolici siamo una religione, la Chiesa, non uno tra i popoli della terra - ma che comunque esiste (anche per molti degli ebrei che riconoscono il Salvatore nella Persona di Gesù, siano essi cattolici, protestanti o semplicemente “Ebrei per Gesù”, e che certamente non possono essere esclusi dal dialogo tra la loro fede e il loro Popolo – ma questo è un altro argomento ancora). Voler restringere il dialogo con il Popolo Ebraico al solo settore “religioso” rischierebbe di depauperarlo e di limitarlo ai soli “professionisti della religione” e ai loro dotti discorsi e disputationes teologiche.
 
La svolta davvero “epocale” segnata dalla firma, il 30 dicembre 1993, dell’ Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, avrebbe cambiato i termini del discorso, allargandolo e ri-orientandolo. Senza abbandonare, certo, il dialogo specificamente religioso tra i ministri di religione – anzi, incentivandolo ancora – il fulcro del rapporto complessivo tra la Chiesa Cattolica e il Popolo Ebraico diventa il rapporto particolare, ma dirimente, tra la Chiesa che vive in Terra Santa e lo Stato Ebraico. Esso, in effetti, si trova impegnato dalla propria Dichiarazione di Indipendenza (14 maggio 1948), profondamente laica, a riconoscere, tra altri, anche alla Chiesa i suoi diritti e libertà, inerenti e acquisiti, e ad assicurare la “perfetta eguaglianza” di tutte le persone sul territorio. L’ Accordo fondamentale esprime, in effetti, la concorde volontà di tradurre questi primordiali impegni in norme e procedure concrete; concorde volontà che ha ancora un lungo cammino da fare prima di diventare compiutamente realtà.
 
Così, tributare un primato nel dialogo tra i cattolici e gli ebrei a Israele– come a lungo rivendicato da più partecipanti ebrei ai dialoghi “istituzionali” – non sarebbe più per i cattolici la temuta occasione del pericolo di trovarsi ad appoggiare, tra l’altro, anche delle politiche temporali talvolta discutibili (come lo sarebbero quelle di qualsiasi Stato), ma al contrario, un’occasione di dare attivamente, anche se modestamente (come conviene ad un “piccolo gregge”), il proprio contributo al progresso civile di una società e di una Comunità politica che, umanamente parlando, determinerebbe le sorti della presenza, della vita, dell’opera e della testimonianza della Chiesa di Cristo nella Sua Terra natale. Oramai dunque un rapporto dialogale tra cattolici ed ebrei che non mettesse in qualche modo al centro, che non ritenesse elemento comunque dirimente, il rapporto effettivo tra lo Stato Ebraico e la Chiesa che è in Israele, non potrebbe che sembrare a molti artificioso e irreale, arenato nel passato, mentre invece debba essere collocato nel presente e orientato verso il futuro. E’ il presente che plasmiamo ogni giorno e il futuro che è per noi da costruire insieme.
 
* Sacerdote francescano di Terra Santa, nato in Israele, membro del Popolo Ebraico
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