02/02/2017, 10.44
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Il film “Silence”, l’abiura e la gioia del martirio

di Bernardo Cervellera

Il film non è un’apologia dell’abiura. Ha il coraggio di far emergere domande religiose su Dio, la sofferenza, il suo silenzio in un’epoca di indifferenza. E ripropone la contemporaneità del martirio. Ma gli manca la gioia cattolica testimoniata da santi giapponesi e da tutti i martiri della Chiesa. Il Giappone non è una “palude” e vi sono inquietudini e conversioni.

Roma (AsiaNews) – Molti amici, sacerdoti e laici, mi hanno chiesto interventi e commenti sul film di Martin Scorsese. Non potendo rispondere ad uno ad uno, ho deciso di scrivere per tutti questo commento che pubblico oggi. AsiaNews ha già parlato del valore del film del regista americano in un’intervista al gesuita Emilio Zanetti, che è amico di Scorsese e ha collaborato alla stesura del film.

 

Il film “Silence” di Martin Scorsese è anzitutto un bel film per la sua fotografia nitida e semplice; per il ritmo cadenzato di scene veloci e drammatiche a cui seguono scene immobili e riflessioni o dialoghi; per il tema - il silenzio di Dio - che il regista ha voluto affrontare con coraggio in un periodo come il nostro in cui vi è indifferenza non solo al silenzio ma anche al parlare di Dio.

Le sequenze che io trovo più belle sono quelle dall’alto: della salita delle scale dell’edificio a Macao (forse la chiesa di S. Paolo) dei tre missionari – Valignano, Rodriguez e Joao de Santa Marta; o quelle della nave che solca solenne il mar Cinese e porta i due giovani missionari sulle coste del Giappone. Sono come uno sguardo alla terra dal cielo, uno sguardo che qualcuno potrebbe definire indifferente e che invece sono piene di partecipazione. È come il punto di vista di Dio (o uno dei suoi punti di vista), tenendo conto che gli altri punti di vista – dove appare il volto di Gesù nel dipinto di El Greco – sono sulla terra e hanno il volto degli uomini che vengono uccisi o che calpestano l’immagine sacra.

L’abiura

Il film e la storia raccontata non sono un’apologia dell’abiura alla fede. Sono invece una domanda inquietante sul perché all’interno della bellezza del nostro mondo naturale esista il dolore, la morte, la persecuzione, l’odio, il conflitto fra religioni. Da questo punto di vista il film – lo ripeto – è coraggioso perché si pone le domande di fede in un mondo che è post-fede e ripropone con una attualità sconvolgente la realtà del martirio cristiano (così evidente in Medio oriente, in Africa, in Cina, in Corea del Nord) e la domanda sul perché morire per una fede, per un Dio.

Il film è un’opera profondamente religiosa – come una continua domanda, interrogazione al Dio che non parla con una voce sensibile, ma che spinge uomini, donne, sacerdoti e laici a donare la vita e a rischiare la morte ogni giorno per Lui.

È un film cristiano: è presente una grande misericordia per ogni scelta degli uomini, anche per il tradimento, anche per l’abiura usata come metodo di sopravvivenza (v. il personaggio di Kichijiro, che ogni volta abiura e ogni volta chiede perdono).

La gioia cattolica

Forse non è un film cattolico perché gli manca una dimensione fondamentale del cattolicesimo, che è la gioia. Ma questo – io credo – è dovuto in parte all’essersi attenuto abbastanza fedelmente al libro di Shusako Endo, che è un libro senza gioia. Il grande scrittore ha vissuto sempre in sé la difficoltà dell’essere cattolico in una società che guarda a questa fede come a una cosa straniera e ha subito nella sua esistenza le stesse domande che Ferreira – il gesuita rinnegato – si pone sul modo in cui la fede che” proviene dall’occidente” possa incarnarsi in Oriente e nella “palude” giapponese.

Da Shusako Endo Scorsese prende il problema di un Dio che è padre, che dà regole, che spinge i figli al martirio, invece che essere madre, misericordiosa, conciliante, accogliente di ogni sussulto umano. Dallo scrittore giapponese il regista americano prende anche la problematica di un cristianesimo che si confronta col buddismo, e che alla fine Dio è uno solo e si nasconde oltre le due tradizioni. In questo si vede come le problematiche suggerite nel libro e nel film siano molto vicine a quelle posizioni post-moderne che rasentano il relativismo e in nome della tolleranza e dell’amore generico passano sopra ad ogni tradizione storica svilendo la verità.

Scorsese non ha preso dal libro il suo finale: il piccolo crocifisso che la moglie data a lui dopo l’abiura, pone di nascosto nelle mani del cadavere di Rodriguez. A mio parere esso rappresenta un segno di speranza e di attaccamento a Cristo da parte del regista, al di là di tutti i tradimenti e debolezze che uno può sperimentare nella vita.

Al martirio cantando

La gioia – e perfino l’umorismo -  sarebbero potuti emergere se il regista fosse stato più attento alla storia del Giappone e alla storia dei martiri giapponesi.

Le cronache del tempo infatti raccontano che i martiri giapponesi erano gioiosi, contenti di andare al martirio per Gesù; si offrivano di soffrire per Lui e non accettavano di essere nascosti. Molti di loro cantavano camminando verso il patibolo e gridavano salmi perfino sulla croce dove erano inchiodati.

Nel film invece i cristiani ritratti hanno paura di morire, ci tengono molto a rimanere in vita, si lamentano nel dolore in un’atmosfera di tragedia. Solo uno dei martiri canta il “Tantum ergo” mentre le onde del mare lo coprono fino a sfaldarlo.

Tutta la storia dei martiri cristiani, invece, è una storia di gratitudine a Cristo per aver donato loro il martirio e una gioia incontenibile nell’attesa del paradiso.

Ricchi e poveri

A proposito di paradiso, nel film lo si cita quasi dubitando di esso (e ciò è comprensibile in un’atmosfera post-moderna, che non crede alle favole). I cristiani giapponesi presentati da Scorsese vedono il paradiso solo in termini negativi e possiamo dire… materiali: un luogo dove non si soffre più, dove non si lavora più come schiavi, dove non si pagano più le tasse ai signori della terra.

Anche questo mi sembra una dipendenza dalla mentalità post-moderna, in cui la fede è comprensibilmente accettata solo da poveretti, da schiavi, da gente sull’orlo della disperazione, ma non è fatta per persone coltivate, per i ricchi, per chi ha alte cariche.

Invece, la storia dei martiri giapponesi ci dice che a convertirsi al cristianesimo e ad accettare il martirio sono stati anche personalità della corte giapponese, dei signori, dei cavalieri – come Takayama Ukon, il signore feudale convertitosi al cattolicesimo nel XVI secolo, che sarà beatificato presto, forse dallo stesso papa Francesco quando andrà in Giappone quest’anno.

Una correzione storica va fatta anche sul numero di padri gesuiti che nel 17mo secolo hanno abiurato. La storia di Ferreira è confermata dai documenti; ma non si sa di altri sacerdoti che abbiano abbandonato la fede, si siano sposati e siano divenuti strumenti della persecuzione contro i cristiani. Alcune fonti giapponesi parlano di altri quattro sacerdoti gesuiti, oltre al Ferreira, ma fonti più recenti (v. H. Jedin) lo escludono per il fatto che i quattro di cui si parla sono morti in prigione e non sono mai stati liberati.

Le conversioni

In conclusione, mi sembra che il film sia un ottimo strumento per far sorgere domande profonde nel cuore dello spettatore; per scuotere dall’indifferenza sul martirio di tanti cristiani nel nostro tempo; per chiedere misericordia e compassione davanti alla miseria dell’uomo, ma attende una testimonianza di fede nella gioia da parte dei cristiani.

A questo proposito, vale la pena notare che in Giappone nei quasi due secoli di persecuzione, molti cristiani hanno continuato a vivere di nascosto la loro fede, trasmettendosela con coraggio e con astuzia. Segno che la terra giapponese non è quella “palude” che il film e il libro descrivono. Del resto anche oggi, sebbene vi siano poche conversioni al cristianesimo, i giapponesi vivono una grande inquietudine sul senso della loro vita, schiacciati come sono dal lavoro, dalle abitudini, dalle tradizioni che assopiscono la coscienza personale. All’estero, invece, dove la pressione e l’amalgama sociale è minore, assistiamo a prodigiose conversioni di giovani, di imprenditori, di persone impegnate nel settore della moda.

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