10/02/2017, 14.37
MYANMAR
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Il “nuovo” Myanmar ostaggio dei militari e delle divisioni etniche e confessionali

di Francis Khoo Thwe

Nello Stato Kachin una infermiera cristiana violentata e uccisa. Cina e Myanmar discutono di sicurezza lungo il confine settentrionale. Le cronache internazionali rilanciano le persecuzioni contro la minoranza musulmana. Fonti di AsiaNews: Violenze colpiscono “varie religioni ed etnie”, ma i media sono “concentrati sui Rohingya”. Fattori sociali e politici in gioco. 

 

Yangon (AsiaNews) - Il nuovo Myanmar di Aung San Suu Kyi e guidato dal governo targato Lega nazionale per la democrazia (Nld), vincitore delle elezioni del novembre 2015, resta un Paese ostaggio dei militari e segnato da profondi contrasti, se non fratture a livello etnico e confessionale. È quanto emerge da racconti e testimonianze raccolti da AsiaNews nel Paese. Le violenze, osservano le nostre fonti, “colpiscono varie religioni ed etnie”, anche se in queste settimane le prime pagine dei media internazionali “sono concentrati sulle sofferenze della minoranza Rohingya”, di cui ha parlato anche papa Francesco nell’udienza generale dell’8 febbraio. 

In queste ore ad agitare le acque della vita politic a vi è per esempio  l’omicidio avvenuto ieri di una giovane infermiera cristiana Kachin nei pressi di Myitkyina. “È stata oggetto di violenza sessuale - spiega una nostra fonte - poi uccisa con almeno 19 coltellate”. 

Al momento non vi sono certezze sulla natura dell’attacco, sebbene già in passato si siano registrati casi di abusi e omicidi di giovani Kachin da parte di soldati dell’esercito birmano, in una zona teatro di un sanguinoso conflitto etnico che ha causato migliaia di sfollati. “A questo si devono aggiungere - prosegue la fonte - le distruzioni di chiese e di luoghi di culto cristiani nella regione, a conferma che nemmeno la comunità cristiana si può dire al sicuro”. 

Sulle violenze nello Stato Kachin è intervenuta anche la Cina, che chiede un cessate il fuoco al Myanmar per mettere fine all’esodo di profughi oltreconfine. Il 7 febbraio si è tenuto un incontro fra delegati birmani e cinesi a Kunming, nella provincia cinese dello Yunnan, fra funzionari di alto livello. Pechino vuole la fine del conflitto e il ripristino di pace e stabilità lungo la frontiera, per salvaguardare i commerci e la sicurezza della popolazione cinese che vive nella zona. 

Le tensioni etniche e confessionali nell’area sono così forti da causare una protesta contro la costruzione a Myitkyina e Mudon (capitali degli Stati Kachin e Mon) di statue dedicate ad Aung San, padre di Suu Kyi, generale birmano ed eroe dell’indipendenza. Sebbene i lavori di realizzazione siano già iniziati, gruppi attivisti e membri della società civile ne hanno chiesto l’interruzione. Non è possibile accettare questa statua, spiegano i manifestanti, quando è ancora in corso un conflitto e non vi è una piena applicazione del principio federalista nel Paese. 

Vi è poi il caso, tuttora oscuro, della morte di un famoso avvocato e costituzionalista musulmano, Ko Ni, in passato consulente di primo piano della Nobel per la pace e della Nld. “Una vicenda - racconta una fonte di AsiaNews a Yangon - che ha provocato enorme dispiacere in tutto il Paese. Un lutto collettivo, a prescindere dalla fede professata dall’uomo. Era un buon cittadino, un nostro amico e compaesano. In questo caso va escluso il movente confessionale, non è un omicidio religioso”. Per gli esperti la sua morte rientra infatti in un assassinio di natura politica per il lavoro dell’attivista a favore di una modifica della Costituzione voluta dai militari. 

Infine, vi è la vicenda della minoranza musulmana Rohingya che ha riempito le cronache internazionali nelle ultime settimane, sebbene la vicenda si trascina irrisolta ormai da anni. In queste ore una commissione di inchiesta dell’esercito birmano - formata da un generale e altri cinque alti ufficiali - ha aperto un’indagine ufficiale sulle accuse di violenze e violazioni ai diritti umani commessi dai militari. Al contempo, una nave battente bandiera malaysiana ha portato aiuti - cibo e generi di prima necessità - per 2300 tonnellate a favore di decine di migliaia di rifugiati Rohingya. Tuttavia, dopo aver attraccato nel porto di Yangon il cargo è stato accolto dalla protesta di gruppi nazionalisti ed estremisti buddisti. 

Decine di monaci buddisti e manifestanti sventolavano bandiere del Myanmar scandendo slogan e brandendo cartelli con la scritta “No Rohingya”. “La situazione in questo contesto - spiega una fonte locale di AsiaNews - è diversa da come viene descritta sui media internazionali. In questa vicenda entra in gioco l’elemento nazionalista e il fatto che nel Paese, seppur di fronte a un certo sviluppo, restino ancora grandi sacche di povertà. Molti birmani chiedono prima di tutto di rispondere ai bisogni dei connazionali, poi di estendere le attività benefiche a favore di altri. In questo contesto, fra i giovani vi è maggiore apertura e rispetto per tutte le religioni e i loro fedeli, mentre fra gli adulti e gli anziani restano delle sacche di resistenza, se non di aperta ostilità”.  

“Sono d’accordo con le parole del papa - conclude la fonte - e pure io ho molte amicizie fra i musulmani, persone che conosco sin dall’infanzia. Ma qui non siamo di fronte a un problema religioso, questa è una situazione al limite e con diversi fattori politici e sociali in gioco”. 

Il Myanmar è composto da oltre 135 etnie, che hanno sempre faticato a convivere in maniera pacifica, in particolare con il governo centrale e la sua componente di maggioranza birmana. In passato la giunta militare ha usato il pugno di ferro contro i più riottosi, fra cui i Kachin nell'omonimo territorio a nord, lungo il confine con la Cina e con i ribelli Kokang nello Stato Shan. A questi si uniscono le violenze contro la minoranza musulmana Rohingya che Naypyidaw considera immigrati irregolari, privi del diritto di cittadinanza. 

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