03/11/2009, 00.00
CINA
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In Cina è ancora la tortura il primo metodo di indagine

Il China Human Rights Defender riporta il caso di Wang Jinyong, torturato per otto giorni per non aver permesso la demolizione della sua casa. La Commissione Onu contro le torture: “Preoccupati dalla situazione nel Paese”.
Pechino (AsiaNews) – Il governo cinese e il suo sistema carcerario continuano a usare la tortura come strumento per ottenere delle “confessioni”. Nonostante l’impegno espresso due anni fa dall’esecutivo, e le ammissioni della Corte suprema del popolo, è impossibile per le vittime di questi maltrattamenti ottenere giustizia. Lo denuncia il China Human Rights Defender (Chrd), una organizzazione non governativa che opera per il controllo dei diritti umani in Cina.
 
La Ong cita il caso di Wang Jinyong, che tre anni fa è stato arrestato, tenuto in carcere e torturato per otto giorni nella città di Linyi, nella provincia dello Shandong. Nonostante i segni evidenti (fisici e mentali) degli abusi da parte degli agenti carcerari, le corti di giustizia locali e i funzionari governativi si sono più volte rifiutati di accogliere le sue denunce. In questo modo non soltanto non riesce a ottenere giustizia, ma rimane valida la confessione che gli è stata estorta con la violenza.
 
L’ultimo tentativo risale al 21 ottobre del 2009, quando il fratello di Wang – Wang Jinsheng – è stato cacciato dal Procuratorato provinciale dello Shandong, che si trova nella città di Jinan. Questo è l’organo che, per legge, è incaricato di indagare sui casi di tortura in carcere. Renee Xia, direttore di Chrd, spiega: “Casi come quello di Wang dimostrano la mancanza di un meccanismo che funzioni realmente contro i casi di tortura. Il Procuratorato, invece di fare ciò che dovrebbe, è sempre di più una sorta di schermo, alzato a difesa delle autorità”.
 
La storia di Wang Jinyong inizia il 13 dicembre 2006, quando viene arrestato con il sospetto di “tangenti”. In realtà, si opponeva alla demolizione forzata della casa della sua famiglia. Viene torturato dal 15 al 23 dicembre, all’interno del Centro di detenzione della Contea di Linshu, dal procuratore Dong Jinwei e da altre sette persone. Gli otto aguzzini volevano una confessione per le tangenti, dato che la polizia non aveva prove di alcun genere contro di lui.
 
All’inizio, racconta Wang, è stato legato ad una sedia: tenuto fermo senza poter dormire né mangiare. Il 20 dicembre è stato picchiato alla testa ed è svenuto. Al suo risveglio è stato ammanettato e bendato per essere trasportato in ospedale. Proprio la cartella clinica rilasciata in quell’occasione dimostra le torture subite. Riportato in carcere viene condannato per tangenti, ma la pena gli viene sospesa. Da allora, nonostante sei diverse denunce, non è stato ascoltato da nessuno.
 
Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, che il governo cinese ha ratificato nel 1988, “ogni governo deve impegnare le proprie autorità competenti ad effettuare indagini giuste e imparziali, qualora ci siano prove credibili di atti di tortura commessi all’interno della sua giurisdizione”. Non avendo un sistema giudiziario indipendente, i cittadini cinesi sono però costretti a rivolgersi alle stesse autorità che sono responsabili delle torture.
 
Dopo una visita nelle carceri cinesi avvenuta nel 2008, i membri della Commissione Onu contro la tortura hanno redatto un rapporto ufficiale che recita: “Siamo profondamente preoccupati dalla mancanza di un meccanismo che investighi sui casi di tortura. Esistono seri conflitti di interesse fra il ruolo giocato dal Procuratorato, che dovrebbe condurre le indagini ma che è composto da membri del governo”.
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