07/07/2020, 14.24
CINA
Invia ad un amico

In crisi le fabbriche cinesi di mascherine

Dopo il boom agli inizi della pandemia, molti stabilimenti del settore hanno chiuso i battenti. Prodotti oltre 200 milioni di pezzi al giorno. Le fabbriche chiudono per eccesso di produzione. Senza lavoro, gli operai protestano per il mancato pagamento degli arretrati. Circa 350 euro al mese per produrre 3mila maschere sanitarie.

Hong Kong (AsiaNews) – Dopo il boom nelle prime fasi della pandemia, sono in crisi gli stabilimenti cinesi che producono mascherine protettive per il Covid-19. Secondo il China Labour Bulletin (Clb) di Hong Kong, dai primi di maggio a  fine giugno si sono registrati nove scioperi o manifestazioni di protesta per la chiusura o il ritardo nei pagamenti degli stipendi agli operai del settore.

Nella prima metà del 2020, nel Paese sono sorte più di 76mila nuove fabbriche di maschere. Ora molte di esse chiudono per eccesso di produzione. Questo è dovuto al calo dei casi di contagio, ma anche alle erronee previsioni sulle potenziali vendite all’estero, come evidenziato dal Global Times (giornale legato al Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Partito comunista cinese).

Tale era la domanda di maschere facciali in Cina agli inizi della pandemia che le imprese del settore avevano aumentato la produzione giornaliera di quelle modello N95 (le migliori in circolazione) da 130mila pezzi ai primi di febbraio a 5,86 milioni alla fine di aprile. La produzione di maschere di altro tipo era invece cresciuta da cinque milioni a 200 milioni al giorno.

Con tali quantità, e una domanda che continua a restringersi, il prezzo unitario delle maschere è precipitato e le fabbriche hanno iniziato ad accumulare enormi scorte. Senza contare che molte linee di produzione hanno dovuto ritirare mascherine che si sono dimostrate di scarsa qualità.

Quattro delle nove proteste rilevate dal Clb sono avvenute nel Jiangsu, un’importante provincia manifatturiera. Il caso più eclatante si è avuto però nell’Henan. Il 17 giugno, la fabbrica di maschere del gruppo Shengguang  a Pingdingshan ha chiuso all’improvviso, lasciando i lavoratori senza prospettive per la loro sussistenza. Cinque giorni dopo, nella vicina Xinyang, un altro stabilimento della stessa compagnia ha chiuso i battenti. I dipendenti di entrambe le fabbriche hanno organizzato proteste chiedendo il pagamento dei loro stipendi arretrati.

I governi locali e il ministero dell'Industria di Pechino hanno aiutato il gruppo Shengguang a incrementare la produzione da 300mila a circa sei milioni di maschere al giorno, spesso di pessima qualità. Questi sussidi sono stati concessi nonostante i dubbi espressi dai lavoratori sull’affidabilità dei loro dirigenti.

I salari nelle due fabbriche erano piuttosto bassi. Gli operai dovevano produrre 3mila maschere N95 ciascuno ogni mese per ricevere uno stipendio base di 2.800 yuan (353 euro). La commissione per il turno di giorno era di circa 0,02 yuan per pezzo; 0,03 yuan per quello di notte. I lavoratori che producevano maschere monouso non avevano nemmeno uno stipendio base ed erano pagati a forfait.

TAGs
Invia ad un amico
Visualizza per la stampa
CLOSE X
Vedi anche
I computer di Taiwan migrano verso il mercato indiano
15/11/2006
Effetto coronavirus: Export cinese cala del 3,3% a maggio
08/06/2020 08:51
Milioni di cinesi di nuovo in lockdown. Ripresa economica segna il passo
02/08/2021 11:16
Coronavirus: il 13,8% dei giovani cinesi è senza lavoro
15/05/2020 14:59
Pandemia e guerra commerciale: più che dimezzati i salari nell’industria cinese
21/05/2020 08:58


Iscriviti alle newsletter

Iscriviti alle newsletter di Asia News o modifica le tue preferenze

ISCRIVITI ORA
“L’Asia: ecco il nostro comune compito per il terzo millennio!” - Giovanni Paolo II, da “Alzatevi, andiamo”