05/02/2014, 00.00
INDIA
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India, la Corte suprema rivedrà la sentenza "pro-indù", per frenare l'estremismo religioso

di Nirmala Carvalho
Nel 1995 il più alto tribunale del Paese aveva stabilito che cercare voti in nome dell'induismo non è una forma di corruzione. Il verdetto venne molto criticato, perché l'imputato di quel processo si era fatto eleggere in nome dell'hindutva, ideologia nazionalista. Il presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic) accoglie in modo favorevole le decisione della Corte suprema in vista delle elezioni generali di maggio 2014. "Negli Stati dove si persegue l'hindutva le minoranze vivono nell'insicurezza".

Mumbai (AsiaNews) - La Corte suprema dell'India ha deciso di riesaminare un proprio giudizio del 1995, nel quale aveva stabilito che cercare voti in nome dell'induismo non è una forma di corruzione. Il più alto tribunale del Paese ha deciso di rivedere la sentenza - molto criticata 18 anni fa - in vista delle elezioni generali che si terranno il prossimo maggio, già molto combattute in campagna elettorale. Al voto si sfideranno i due maggiori - e diametralmente opposti - partiti: il Congress, laico e democratico ora al governo, e il Bharatiya Janata Party (Bnp), ultranazionalista indù.

Nel motivare la revisione della sentenza, la Corte suprema ha sottolineato che "le elezioni del 2014 sono importanti. La ricerca di voti in nome della religione va considerata nell'interpretazione della sezione 123 (3) del Representation of the People Act [Rpa, Legge sulla rappresentanza del popolo]".

Il Rpa è una legge che stabilisce il codice di condotta delle elezioni per il Parlamento e i singoli Stati, indicando le qualifiche necessarie ai candidati e le relative interdizioni. La sez. 123 (3) include tra le pratiche di corruzione "l'appello di un candidato a votare o astenersi dal votare in base alla sua religione, razza, casta, comunità o lingua [...]".

Passato alla storia come "la sentenza hindutva" [ideologia nazionalista basata sull'induismo, ndr], il verdetto del 1995 riguardava Manohar Joshi, leader del Shiv Sena (alleato del Bjp) che era stato eletto chief minister del Maharashtra. In uno dei comizi pre-elettorali, il politico aveva dichiarato che "il primo Stato indù sarà fondato in Maharashtra". Per l'Alta corte di Mumbai, affermazioni come questa violavano la sez. 123 (3) del Rpa, e per questo aveva definito nulla l'elezione. Il caso finì poi alla Corte suprema, che ribaltò la sentenza dicendo che un simile appello non aveva base religiosa ma era "espressione di una speranza".

Contattato da AsiaNews Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), si dice "soddisfatto della decisione della Corte suprema, che salvaguarderà le credenziali laiche dell'India, così come sono sancite dalla Costituzione. Ci sono pericoli intrinsechi nell'hindutva, che è una forma estrema di nazionalismo che minaccia il carattere secolare del Paese. L'induismo tradizionale non è legato alla nazionalità. La Rashtriya Sawayamsevak Sangh (Rss, gruppo fondamentalista indù) segue l'hindutva, che ha come obiettivo la creazione di uno Stato indù, e il Bjp è il suo braccio politico".

"In molti Stati guidati dal Bjp - continua il leader cristiano - le minoranze vivono nell'insicurezza, alimentata dalla strategia hindutva che si basa sul polarizzare le comunità religiose attraverso la violenza". 

 

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