30/10/2007, 00.00
CINA – COREA DEL SUD
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Industrie coreane in fuga dalla Cina, dove produrre non conviene più

Alla fine degli anni ’80, erano oltre 30mila le fabbriche coreane in Cina: oggi ne rimangono circa 10mila, in rapida diminuzione. Alla base dell’esodo vi sono l’aumento del costo del lavoro, le tangenti estorte dai dirigenti comunisti locali e le costose politiche ecologiche, che Pechino applica soltanto agli stranieri.
Seoul (AsiaNews) – Le industrie coreane in Cina, le prime a trasferirsi nella Terra di mezzo dopo le aperture economiche di Deng Xiaoping, stanno chiudendo i battenti per tornare a casa o trasferirsi nel Sud-Est asiatico: produrre qui, oramai, costa troppo. Lo denuncia un lungo rapporto del quotidiano coreano Dong-A Ilbo, che ha analizzato il fenomeno dopo la recente chiusura di 44 ditte coreane nel distretto cinese di Qingdao, avvenuta in meno di una settimana.
 
Secondo l’inchiesta, il crescente costo del lavoro ed il “razzismo” delle politiche industriali cinesi ha causato un aumento dei costi di produzione che ha abbattuto il profitto delle industrie coreane. Un industriale di Seoul spiega il fenomeno con il “nuovo corso” lanciato dal presidente Hu Jintao, che predica il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, ma “viene applicato soltanto alle ditte non cinesi”.
 
Lee Pyeong-bok, direttore della Kotra a Dalian, si sfoga: “Il governo impone regolamenti durissimi e molto costosi sullo smaltimento ecologico degli scarichi industriali, e si erge a paladino dei diritti dei lavoratori. Tutto molto giusto: peccato però che questo modo di fare venga applicato soltanto a noi, mentre le industrie cinesi fanno ciò che vogliono. In questo modo, non siamo in grado di reggere la loro competitività sul mercato interno, e perdiamo soldi ”.
 
Alla fine degli anni ’80, oltre 30mila industriali coreani hanno approfittato delle vantaggiose politiche fiscali offerte da Pechino agli industriali stranieri e si sono spostati nella parte meridionale della Cina. Ad oggi, ne rimangono appena 10mila. Alcune delle fabbriche costrette alla chiusura puntano il dito anche contro le tangenti sempre più alte richieste dai dirigenti comunisti locali, un’accusa che ha portato Pechino a protestare per via diplomatica con Seoul.
 
Hwang Jae-won, che guida una fabbrica di giocattoli, spiega: “Il numero delle nostre aziende in fuga cresce di giorno in giorno: nel 2003, il 41 % delle industrie coreane all’estero era in Cina; oggi siamo al 30 %, in rapida diminuzione. Il prossimo gennaio, infatti, entrerà il vigore il nuovo contratto per i lavoratori cinesi: per noi non lavoreranno mai in nero, come fanno per i loro compatrioti, e questo significherà altre perdite”.
 
Per la maggior parte, gli “esuli” prevedono di rientrare in Corea o spostare le fabbriche in Vietnam e Cambogia, dove il costo del lavoro è molto più basso di quello cinese. Un dirigente coreano, anonimo, dice: “Se devo pagare tangenti e coprire il costo ecologico di industrie protette dalla politica, preferisco farlo a casa mia. Almeno, farò crescere l’economia coreana e non quella cinese”.
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