06/08/2019, 13.53
INDONESIA
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Jakarta, missione: uscire incontro alle persone di altre fedi

di Mathias Hariyadi

P. J.B. Heru Prakosa, gesuita ed esperto di islam, è intervenuto al Congresso missionario nazionale (Jakarta, 1-4 agosto). Il sacerdote invita i cattolici ad uscire dalla “zona di comfort”. La risposta dei giovani alla “pastorale del bene comune”.

Jakarta (AsiaNews) – Prender parte alla missione della Chiesa in Indonesia significa “superare limiti e confini”, andando incontro a persone di altre fedi. Tale esperienza sviluppa “una tensione creativa”, che si diffonde tra impegno di fede e contesto culturale, testimonianza e discernimento. Lo afferma p. J.B. Heru Prakosa, gesuita ed esperto di islam. Il sacerdote è uno dei relatori intervenuti al Congresso missionario nazionale, organizzato a Jakarta dalla Conferenza episcopale (Kwi) tra il primo ed il 4 agosto scorsi, col tema “Battezzati e inviati a proclamare il Vangelo”.

P. Prakosa apre la sua conferenza descrivendo i diversi volti dell’islam in Indonesia, definiti dalla profonda interazione della religione con le tradizioni locali: “Abbiamo il Sasak Islam a Lombok (nella provincia di East Nusa Tenggara), l’islam di scuola javanese, il Bugis Islam a South Sulawesi… Nella complessità di fattori socioculturali caratteristici della cultura indonesiana, siamo obbligati a definire il vero significato della nostra missione, come la Chiesa ci chiama a fare. E secondo la mia opinione personale, essere in missione significa oltrepassare i confini”, afferma il sacerdote.

“Le vere sfide – prosegue – si trovano all’interno delle nostre comunità. Altre coinvolgono invece tutti gli indonesiani, cattolici inclusi: tutela ambientale, nuove forme di comunicazione digitale, teorie di genere, estremismo religioso, ideologie ‘new age’ ecc. Papa Francesco ci invita a comprendere il significato delle testimonianze rese dalle vite esemplari dei ‘missionari’, l’importanza della formazione teologica e spirituale, nonché della carità. Attraverso tutto ciò, rimaniamo concentrati sul Signore”.

Secondo p. Prakosa, formazione spirituale e carità missionaria devono essere esercitate attraverso attività di patrocinio sociale e apprendimento comune su temi rilevanti; iniziative umanitarie di natura interreligiosa; cura dei giovani, affinché in futuro essi diventino leader integri. “Ma abbiamo il fegato di farlo?”, chiede il gesuita.

Altra sfida delicata – che molti cattolici indonesiani dimostrano di soffrire – è uscire e socializzare fuori la propria comunità di appartenenza. “È necessario avere il coraggio di uscire dalla ‘zona di comfort’. Non siamo forse in grado di stare in mezzo a concittadini di contesti etnici e religiosi diversi?”, incalza il sacerdote.

Per ovviare al problema, la Chiesa indonesiana promuove una pastorale dedicata al “bene comune”. “I giovani cattolici sono incoraggiati a socializzare con persone di altre fedi”, aggiunge p. Prakosa. Sull’isola di Java, la più popolosa dell’arcipelago, ragazzi e ragazze di diverse parrocchie sono impegnati in iniziative per il dialogo e l’armonia religiosa; durante le più importanti festività islamiche, ad esempio, si occupano della sicurezza nei parcheggi, mentre i musulmani pregano all’aperto. I giovani cattolici sono attivi anche sul fronte umanitario e prendono parte a sforzi umanitari in caso di disastri o emergenze. Tuttavia, il loro numero è ancora esiguo. Più difficile è coinvolgere adulti, anziani e persone agiate.

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