26/04/2021, 14.31
LIBANO - VATICANO
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L’amore speciale del papa per il Libano, la ‘nazione messaggio’

di Fady Noun

Da Giovanni Paolo II a Francesco, il Paese dei cedri resta un modello da preservare di dialogo e di incontro. L’attenzione della Santa Sede alla crisi politica e istituzionale e ai “risvegli identitari”. Il ruolo storico dei cristiani libanesi nei conflitti e nelle tensioni che insanguinano il Medio oriente. 

Beirut (AsiaNews) - All’indomani della visita di Saad Hariri in Vaticano, abbiamo tutto il diritto di domandarci quale tipo di sostegno ne abbia ricavato il primo ministro incaricato, oltre a sapere come la Santa Sede abbia costruito la propria diplomazia in Medio oriente e se il Libano occupa in questo quadro un ruolo centrale. Un breve viaggio nel tempo non è affatto inutile per rispondere a queste domande. Quando nel 1993 papa Giovanni Paolo II ha preso l’iniziativa di convocare un sinodo per il Libano, egli ha derogato alle regole per almeno due elementi essenziali. La consacrazione di un sinodo per il Libano ha rappresentato una scelta piuttosto insolita e inusuale.

In genere l’assemblea era convocata per il bene di un continente (l’Africa, ad esempio) o per questioni stringenti legate alla pastorale (altro esempio, la famiglia). Il sinodo per il Libano è stato il primo della storia a essere organizzato e dedicato a un solo Paese in particolare. La seconda innovazione di rilievo è rappresentata dagli inviti rivolti ad autorità religiose islamiche chiamate anch’esse a partecipare (sunniti, sciiti e drusi) all’incontro. Inoltre, il suddetto invito è stato esteso in qualità di partecipanti e non di semplici osservatori. 

Per la cronaca, spiegata da Mohammad Sammak, delegato di Dar el-Fatwa al Sinodo per il Libano, bisogna sapere che è stato Rafic Hariri a convincere i capi spirituali musulmani libanesi della necessità di rispondere all’appello del papa. Questi ultimi, dopo una serie di discussioni, avevano poi deciso di scusarsi, inviato un messaggio di ringraziamento al capo della Chiesa cattolica e augurando al sinodo i migliori successi. Rafic Hariri che aveva colto l’importanza dell’avvenimento e lo giudicava un “contraltare spirituale” dell’accordo di Taëf (1989) e l’intesa della parità islamo-cristiana in Parlamento. Egli è riuscito a convincere i capi religiosi musulmani che il sinodo non sarebbe stato un semplice incontro religioso fra cristiani, ma la promozione di un progetto su scala nazionale per la risoluzione della guerra civile, capace di aprire nuovi orizzonti. I tre rappresentanti e delegati musulmani al Sinodo sarebbero stati il druso Abbas Halabi, lo sciita Saoud Maoula e M. Sammak.

Invitato in Vaticano all’indomani del sinodo per il suo ruolo di primo piano nel successo dell’evento, Rafic Hariri ha ricevuto da papa Giovanni Paolo II parole di profonda gratitudine, come ebbe a dire M. Sammak. “Vi voglio affidare - si era spinto a dire nell’occasione il Santo Padre - i cristiani del Libano”. Parole alle quali Rafic Hariri risponde dicendo: “Sono la mia famiglia e i miei fratelli. Noi tutti formiamo, assieme, un solo popolo”. 

Il precedente del Sinodo sul Libano si è ripetuto anche in occasione del Sinodo sul Medio oriente (2010), reso necessario dalle guerre e dai rovesciamenti che si verificavano nella regione. In questo caso si è assistito a uno spostamento dell’attenzione della Santa Sede da una piccola nazione come il Libano all’intera regione del Medio oriente. Ma Benedetto XVI, che lo ha convocato, ha comunque invitato a intervenire un libanese, Mohammad Sammak, oltre ai vescovi e ai patriarchi presenti. Egli ha scelto poi di diffondere l’Esortazione apostolica (sintesi dei discorsi del sinodo) dal Libano. Seppur in modo tacito, ha precisato Sammak, il papa ha ripercorso il cammino di papa Paolo VI che, in viaggio verso Gerusalemme (4-6 gennaio 1964, prima della guerra dei Sei giorni), ha fatto scalo a Beirut prima di sbarcare ad Amman, desirando in questo modo il Libano come la porta del Vaticano verso il Medio oriente.

Ma qual è il segreto di questo amore privilegiato del Vaticano per il Libano, che le attuali dichiarazioni di papa Francesco sembrano estendere? Nell’Esortazione Apostolica “Una speranza per il Libano”, Giovanni Paolo II invita i cristiani del Libano “a continuare e a rafforzare il loro ruolo culturale nel mondo arabo di cui fanno parte”. Infatti, per il Vaticano è importante che prevalga la cultura dell’incontro nel mondo arabo-islamico, percepito come laboratorio di relazioni islamo-cristiane in un mondo in cui la mescolanza religiosa sta diventando generale, orientamento confermato negli ultimi anni dai viaggi di papa Francesco al Cairo (2017), ad Abu Dhabi (2019) e in Iraq (2021), come nella recente enciclica Fratelli tutti.

Consultato sul viaggio in Iraq, Sammak aveva insistito sulla necessità che l’incontro tra papa Francesco e l’ayatollah al-Sistani, riferimento supremo dello sciismo nel mondo arabo, si svolgesse proprio a Najaf. Considerando la posizione del Libano nel mondo arabo e la posizione del mondo arabo in quello islamico, si capisce anche perché la Santa Sede tiene ancora così fortemente il Libano come modello ed esempio. Quali che siano gli altri poli di interesse della Santa Sede, il Libano e la sua convivenza sono sempre, ai suoi occhi, niente di meno che un “particolare universale”, un modello da seguire di pluralismo e di apertura all’altro.

Difatti, in questo periodo travagliato di risvegli identitari, la convivenza nel profondo per come la concepisce il Vaticano è, nei termini del mondo arabo e islamico, il solo modello di civiltà da opporre a minoranze dirette contro il mondo sunnita o a messianismi di ispirazione religiosa, come quello che si scorge in Iran, o etnico-religioso, come quello della ricerca disastrosa dei “diritti dei cristiani” che vediamo all’opera in Libano. Ecco perché, restando fedeli a una dottrina lanciata da Giovanni Paolo II, il Vaticano è ora più che mai preoccupato di vedere il “messaggio del Libano” corrispondere in modo degno a ciò di cui veramente consiste il messaggio libanese. Di vedere i cristiani del Libano salire con coraggio al livello del ruolo storico che è loro chiesto all’interno del mondo arabo e di non cedere alla tentazione di ritirarsi nella loro “comfort zone” basata sull’identità.

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