03/06/2008, 00.00
IRAQ - SIRIA
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Le ultime parole di p. Ragheed: “Non posso chiudere la casa di Dio!”

Nel primo anniversario dell’uccisione del parroco caldeo di Mosul parla l’unica testimone della strage: Ragheed ucciso perché non ha avuto paura. La donna, vedova di uno dei tre suddiaconi trucidati con il sacerdote, attende in Siria di poter dare un nuovo futuro ai suoi figli.
Damasco (AsiaNews) - Poteva scappare, salvarsi, ma è andato incontro al suo destino senza paura. P. Ragheed Gani, ucciso un anno fa in Iraq, è morto perché fino all’ultimo è rimasto convinto che i cristiani non dovevano avere paura, che “non si può chiudere la casa di Dio!”. Nel primo anniversario di quel “martirio” parla l’unica testimone: Bayan Adam Bella, moglie di uno dei tre suddiaconi trucidati a sangue freddo insieme al loro parroco il 3 giugno 2007 a Mosul . La stessa diocesi che a marzo scorso è rimasta orfana del suo vescovo, mons. Faraj Rahho, vittima anche lui del terrorismo.
 
La donna, intervistata da Ankawa.com, è ora rifugiata in Siria con i suoi quattro bambini. Vive con la famiglia del cognato. È piena di dolore e di interrogativi per una sorte che non riesce ancora a spiegare, per le difficoltà che continua ad affrontare nell’ottenere un visto. Ma ora, dopo 12 mesi, ha la forza di raccontare meglio quei tragici momenti. Dopo aver celebrato la funzione eucaristica nella sua parrocchia, quella del Santo Spirito, p. Ragheed si è allontanato in macchina insieme ad uno dei diaconi, suo cugino Basman Yousef Daud. Bayan era in una seconda auto dietro di lui con il marito Wahid Hanna Isho e l’altro diacono, Gassan Isam Bidawed. Negli ultimi giorni i tre accompagnavano sempre il sacerdote per cercare di proteggerlo dopo ripetute minacce di morte.
 
“Ad un certo punto – racconta la donna – la macchina è stata fermata da uomini armati, p. Ragheed poteva fuggire, ma non ha voluto perché sapeva che cercavano lui. Ci hanno costretti a scendere e mi hanno allontanata. Poi uno dei killer ha urlato a Ragheed ‘ti avevo detto di chiudere la chiesa, perché non lo hai fatto? Perché siete ancora qui?’. E lui gli ha risposto con semplicità: ‘Come posso chiudere la casa di Dio?”. Li hanno subito messi a terra e Ragheed ha solo fatto in tempo a farmi un cenno con la testa per dirmi di scappare. Poi hanno aperto il fuoco e li hanno uccisi tutti e quattro”. A questo punto Bayan ha perso i sensi ed è svenuta. Nelle prime ore successive all’attentato, le salme sono rimaste abbandonate per strada perché nessuno osava avvicinarsi. Sono tutti sepolti a Karamles.
 
Bayan è in cerca di tante risposte: “Perché mi avete fatto vedova, perché avete strappato la parola papà dalla bocca dei miei figli? che colpa avevamo? cosa vi aveva fatto mio marito?”, chiede rivolgendosi ai terroristi. Ad agosto 2007 ha fatto richiesta all’Unhcr per avere asilo umanitario in occidente, ma le difficoltà sono enormi: “Inizialmente nessuno credeva alla mia storia, come è possibile chiudere le porte in faccia a tanto dolore?”. A gennaio 2008 ha avuto un altro colloquio con lo staff Onu. Ora aspetta solo di poter ricostruire una vita per lei e i propri figli.
 
Funzioni in ricordo dei quattro martiri si sono svolte nel nord dell’Iraq. A Roma il Pontificio collegio irlandese lo scorso 31 maggio ha organizzato un incontro dal titolo “Testimone di Cristo. Martiri ieri e oggi” per ricordare il sacrificio di Ragheed, ex studente del collegio. All’evento hanno partecipato il card. Kasper presidente del pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e mons. Parolin, sottosegretario per i rapporti con gli Stati.
 
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