04/06/2010, 00.00
SRI LANKA
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L’aiuto incessante della Chiesa ai profughi della guerra civile

di Melani Manel Perera
Intervista a padre Sigamony, direttore della Caritas-Sri Lanka, che racconta le gioie, i successi e i problemi della vita quotidiana con gli sfollati per la guerra civile, per affrontare le loro necessità quotidiane, pratiche e spirituali.

Colombo (AsiaNews) – Anche se la Caritas-Sri Lanka è molto impegnata per aiutare le vittime della lunga guerra civile, “non possiamo essere del tutto soddisfatti [per l’esito di questo impegno] perché le necessità della gente sono tante. Possiamo dare aiuti, ma le necessità della gente sono tante. Non so come possiamo soddisfare tutte le loro necessità e tutte le loro richieste. Per quello che abbiamo fatto per loro, io, come Chiesa, sono contento, ma dico anche che le necessità sono tante, che c’è tanto da fare”. Padre George Sigamony, direttore della Caritas-Sri Lanka, racconta ad AsiaNews quanto la Chiesa cattolica ha fatto per le vittime della guerra e i profughi, e parla del tantissimo che ancora occorre fare.

Padre Sigamony ha seguito per anni la difficile situazione dei campi profughi. Dice che “sono felice di vedere che la popolazione ora non è più confinata in campi profughi, ma è libera di muoversi, di tornare ai loro villaggi, ritrovare parenti e riunificate le famiglie. Ma questa gente ha ancora bisogno di tanto aiuto dello Stato e degli enti, per potersi reinsediare a casa. Invece viene loro dato poco sostegno. Quando visito questa gente vedo che ci sono ancora tanti problemi, come le molte vedove. Lo Sri Lanka deve affrontare questi problemi. La Chiesa li deve affrontare”.

La Caritas segue gli sfollati sin da quando erano nei campi profughi e continua a seguirli ora.

“Nell’aprile 2009 – ricorda padre Sigamony – abbiamo iniziato a prenderci cura dei profughi nei campi di Manik Farm, Trincomalee, Jaffna: circa 97mila profughi. Abbiamo dato loro cibo e anche assistenza psicologica, istruzione…Quando queste persone sono tornate ai loro villaggi, le abbiamo seguite soprattutto attraverso i nostri centri diocesani, in Vanni, Jaffna e Mannar. Nostro personale li ha accompagnati. Abbiamo vissuto con loro e cercato di aiutarli in ogni modo possibile”.

“Quando sono tornati ai loro villaggi, abbiamo dato loro razioni di cibo per le necessità essenziali”. “Quando abbiamo chiesto cosa serviva loro, ci hanno detto che mancano di ripari. Serve loro la luce, ma là non c’è elettricità. Così abbiamo fornito loro lampade solari, soprattutto alle vedove e alle donne che devono fare la capo-famiglia. Diamo loro anche biciclette, perché gli spostamenti sono un altro problema essenziale, specie per i bambini che devono camminare molto per andare a scuole distanti”. “Vorremmo dare loro anche ripari, un tenore di vita, istruzione, assistenza psicosociale. Abbiamo già pensato come farlo e siamo in attesa del beneplacito del governo”.

“La nostra maggiore priorità è sostenere vedove e donne sole, la maggior parte di loro sono giovani tra 18 e 32 anni con 2 o 3 bambini”. “Vogliamo anche favorire l’istruzione dei bambini. Pure quando erano nei campi profughi, li abbiamo aiutati nell’istruzione”.

La Chiesa non ha trascurato i bisogni non materiali dei profughi e il sacerdote esprime il suo ringraziamento “ai vescovi, soprattutto a mons. Joseph Rayappu e a mons. Thomas Savundaranayagam. Dall’inizio, costoro non hanno mai trascurato le necessità della gente, sono stati con queste persone. Nei campi sono stati sempre presenti sacerdoti, per le necessità spirituali”. “E quando la gente ha iniziato a reinsediarsi, con loro ci sono stati i sacerdoti”. “La gente ha capito che la chiesa non li ha mai lasciati soli, che la chiesa è in viaggio con noi”.

Anche se ora questi profughi sono tornati a casa, non tutti sono felici. “Molte famiglie hanno perso il marito, i figli, molti bambini sono diventati orfani”. “Penso che ci vorrà molto tempo per guarire le loro ferite. Molte giovani madri ancora raccontano come hanno visto il marito morire, hanno visto i figli morire. Ci vorrà davvero molto tempo per guarire da questo”.

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