27/10/2016, 12.20
INDIA – BRASILE
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Missionario Pime: Dall’India all’Amazzonia, dove gli indigeni mi hanno cambiato

P. John Raju Nerella è originario dell’Andhra Pradesh. Per 16 anni ha lavorato in Brasile, prima in Amazzonia, poi nelle fazendas e in seguito nelle favelas di San Paolo. Egli è il “frutto della missione del Pime in India”. L’esempio del padre, “una sorta di missionario”. La scelta di andare in missione è “controcorrente. È la fede che ti spinge”.

Roma (AsiaNews) – All’inizio “non potevo sapere che sarei stato mandato all’estero. Io volevo essere come i missionari del Pime, venuti in India per fare del bene. E volevo anche seguire l’esempio di mio padre, che fin da piccolo mi portava con sé nei villaggi per guidare la preghiera”. Lo dice p. John Raju Nerella, sacerdote del Pime (Pontificio istituto missioni estere), parlando della sua vocazione missionaria. Ad AsiaNews racconta i 16 anni trascorsi in Brasile al servizio prima delle popolazioni delle foreste, poi nelle piantagioni delle fazende e infine nelle favelas di San Paolo. Ricordando il periodo trascorso a evangelizzare le famiglie che vivevano sul Rio delle Amazzoni, afferma: “Io ero andato lì per loro, per portare Cristo tra quella gente. Ma a poco a poco, anche se non se ne rendevano conto, sono stati gli indigeni a rendermi più umano”.

P. Nerella, 47 anni, è originario di Annadevarapeta, un piccolo villaggio nella diocesi di Eluru (in Andhra Pradesh). Egli si definisce “il frutto della missione del Pime in India”, in quanto è stato tra i primi missionari locali ad essere ammessi nell'istituto grazie all’iniziativa di p. Benito Picascia, ex superiore regionale in India.

Il sacerdote racconta che fin da piccolo ha “respirato” il lavoro della missione perché il padre, sposato dai sacerdoti del Pime, ha effettuato “un tipo di preparazione teologica, una sorta di diaconato (senza ordinazione) per essere catechista ‘ad tempus’ e mi portava con sé quando andava nei villaggi a guidare la preghiera. Lo ha fatto per 45 anni: anche lui si può definire un missionario”.

Il sacerdote ricorda che i missionari “hanno creato tutto ad Eluru: la scuola, la chiesa, l’assistenza alla popolazione”. All’età di 14-15 anni egli si reca da p. Picascia, e gli confida di avere un “desiderio spirituale”: da quel momento inizia una fase di discernimento, che dura fino ai 20-21 anni. Nel frattempo studia matematica, fisica e chimica, che per lui “sono fondamentali, insieme alla filosofia, per la religione. Perché razionalità e spiritualità formano la sintesi perfetta per l’essere umano”.

Nell’agosto 2000 viene ordinato sacerdote e subito i superiori lo informano che sarebbe andato in Cambogia. Ma lui chiede, e ottiene, di essere inviato in un altro continente. “Io sono asiatico – spiega –, ho vissuto in Europa per la mia formazione, e speravo di andare in Africa o America Latina. Volevo portare l’Asia in un Paese lontano”. Dopo pochi mesi, a gennaio 2001, ottiene la destinazione: le foreste amazzoniche del Brasile.

In questo Paese, dalle profonde differenze etniche, sociali, dello sviluppo tra città e zone agricole, egli opera per 16 anni. “La mia prima missione – continua – è stata nel nord, a Macapà, dove il Pime ha creato la diocesi locale. Qui la Chiesa sta svolgendo la prima evangelizzazione tra le popolazioni che abitano sulle sponde del Rio delle Amazzoni e i suoi affluenti. Operavo in tutti i settori della pastorale: catechesi, formazione biblica, battesimi, comunioni, matrimoni. Il lavoro era entusiasmante, ero pieno di energie e voglia di fare”.

A poco a poco, ammette, si è “creata empatia tra di noi e mi sono reso conto che io stesso stavo cambiando: io ero andato lì per loro, ma erano gli indigeni che mi stavano formando come uomo e sacerdote. Mi hanno reso più umano”. La molla che ha fatto scattare la complicità con la gente del posto, racconta, “è stato il mio modo di fare. Io non avevo la pretesa di andare lì ad insegnare, ponendomi su un piedistallo. Mi sono messo al loro stesso livello, vivevo con loro, mangiavo insieme a loro”.

In seguito dal 2005 lavora nello Stato di Mato Grosso, nelle fazende agricole. “Qui la missione è stata più faticosa, i territori in cui operavo avevano un’estensione enorme. La catechesi era difficile perché gli abitanti sono sparsi su grandi distanze, perciò quando andavamo nelle fazende facevamo catechesi a tutti, grandi e piccoli insieme”.

Nel 2008 viene trasferito nello Stato del Paranà, dove il tipo di evangelizzazione cambia ancora: “Si tratta di una città più sviluppata, dove la popolazione studia ed è istruita. Per questo l’opera dei missionari deve stare al passo con la società, diventando più ‘intellettuale’, utilizzando anche i mezzi di comunicazione più avanzati”. Nei successivi tre anni lavora anche nelle carceri e forma un’equipe di laici per visitare i detenuti e le famiglie. “Perché le famiglie non vanno abbandonate, se migliorano le loro vite anche i detenuti sono più sereni”.

Infine nel 2011 l’ultima tappa brasiliana sono state del favelas di San Paolo, dove abitano milioni di persone. Nella megalopoli la missione è stata soprattutto al servizio di giovani e famiglie.

Ciò che lo ha spinto ad andare in missione all’estero, afferma, “è stato l’esempio dei padri del Pime, che erano venuti in India a fare qualcosa di bello per gli altri, per me”. “Ma accanto all’esempio dei sacerdoti italiani – conclude – andare in missione vuol dire testimoniare la propria fede in Cristo. Se non hai fede, non ti muovi. Se non è Cristo che ti spinge, non arrivi a prendere una simile decisione. È una scelta controcorrente, quasi una forza anti-gravitazionale rispetto alle forze della vita, della società, che ti dicono di desistere”.

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