17/02/2015, 00.00
MONGOLIA
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Mongolia, dove la missione cattolica "è fatta di empatia e pazienza"

Nel Paese dal 2003, p. Giorgio Marengo è un missionario della Consolata nelle steppe dell'Asia. Ad AsiaNews racconta le sfide più importanti per la Chiesa locale e le speranze di una comunità nata poco più di 20 anni fa, che cresce "con prudenza e fiducia". Le opere sociali e l'impegno con la popolazione aiutano a declinare il Vangelo in una tradizione sciamanica e buddista. La volontà di "gettare un ponte" verso un universo del tutto diverso da quello occidentale.

Arvaikheer (AsiaNews) - La sfida più complicata per un missionario cattolico nelle steppe della Mongolia "è quella di entrare in empatia con la popolazione locale. I mongoli sono di tradizione sciamanica, ma hanno anche una forte aderenza al buddismo tibetano. La cosa più importante, quella in cui troviamo più difficoltà, è riuscire ad avere un rapporto empatico con questa realtà così complessa. Nel momento in cui noi evangelizzatori riusciamo a farlo, a comprendere i loro perché e quindi a capire che risposte dare, allora gettiamo un ponte verso il loro universo. E la condivisione della nostra fede può essere più comprensibile". È quanto racconta ad AsiaNews p. Giorgio Marengo, missionario della Consolata che dal 2003 vive ad Arvaikheer: la zona è a 400 chilometri dalla capitale UlaanBaatar, e di fatto rappresenta un avamposto della missione cattolica nel Paese.

Secondo p. Giorgio, per entrare in contatto con i mongoli ed essere in grado di presentare loro il Vangelo "è fondamentale essere consapevoli della complessità del loro modo di vedere la vita, terrena e spirituale. E in questo modo riuscire a declinare l'annuncio della salvezza di Cristo. Questo implica per noi missionari il conoscere la loro realtà, una dimensione che a volte però ci sfugge. Non sempre noi, per primi, riusciamo a farlo".

La Chiesa cattolica in Mongolia è nata poco più di 23 anni fa, con l'arrivo (nel 1992) di uno sparuto gruppetto di missionari del Cuore Immacolato di Maria (Cicm, per leggere la loro storia clicca qui). Anche se ancora piccola dal punto di vista numerico, secondo p. Giorgio essa "va bene. Cresce a piccoli numeri, facendo molta attenzione per non dare l'impressione di essere una forza che destabilizzi il Paese. Qui la realtà cattolica - ma anche cristiana - è molto minoritaria, i cattolici sono a stento mille. Il Paese è stato per lungo tempo isolato, e c'è una legislazione che tutela la libertà religiosa, ma è anche preoccupata del proselitismo. Per questo teniamo un profilo abbastanza prudente".

D'altra parte, evangelizzare non vuole dire fare fuochi d'artificio: "Innanzitutto noi non vogliamo destare attenzioni negative. Ma questa prudenza ci aiuta a portare avanti la nostra missione qui. Direi che per la Chiesa mongola questo è un momento di assimilazione. Dopo i primi anni, in cui i primi sacerdoti hanno presentato la Chiesa anche per distinguersi dagli altri cristiani, stiamo mettendo radici. Anche a livello culturale, di penetrazione e di assimilazione del messaggio cristiano sono anni delicati".

L'attenzione pubblica nei confronti dei fedeli non è molto alta, anche se "la figura di papa Francesco, da quello che mi risulta, è conosciuta anche a livello di società civile. Non compare molto sui giornali: alla fine dell'anno scorso, quando il Times l'ha nominato personaggio dell'anno, la notizia è stata pubblicata sui nostri giornali. Anche in occasione di momenti particolari si parla del Papa, come quando è andato in Corea del Sud per la Giornata asiatica della Gioventù. Certo, notizie ordinarie sulla vita della Chiesa universale non se ne trovano".

La storia personale di p. Giorgio lo mette "in prima fila" in questa operazione di radicamento del cattolicesimo nel Paese: "Io sono arrivato qui nel 2003, e mi sono spostato dalla capitale ad Arvaikheer nel 2006. La tradizione nomadica rende la gente curiosa nei confronti dello straniero, quindi c'è stata e c'è una certa apertura nei nostri confronti, ma per instaurare un rapporto di fiducia occorre molto tempo. I mongoli sono ospitali, ma anche molto assorbiti nella loro realtà. Bisogna procedere a piccoli passi".

I "piccoli passi" di questi missionari sono rappresentati anche dalle opere sociali. Particolarmente importante è l'asilo quotidiano: in una ger (tenda tradizionale nomade) "ospitiamo circa 25 bambini dai 3 ai 5 anni. Poi ogni pomeriggio nella nostra missione di Arvaikheer offriamo ai bambini e ai ragazzi del nostro quartiere un tempo e uno spazio dedicato allo studio, al disegno, ai compiti, lezione d'inglese e alla ricreazione.  Abbiamo un campo di calcio, di pallacanestro e pallavolo.  Ogni pomeriggio noi offriamo loro una merenda o un pasto caldo prima di farli ritornare alle loro case".

C'è poi il "Progetto donne" che coinvolge circa 30 persone: "L'idea è nata dall'osservazione della realtà delle famiglie: le donne, che sono in generale più affidabili degli uomini sul lavoro, sono spesso costrette a rimanere a casa per guardare i figli e svolgere lavori domestici nella ger. Non possono così racimolare quel poco che verrebbe loro da uno stipendio fisso. Molti degli uomini sono però disoccupati,  per cui ci sono molti casi in cui entrambi i coniugi non lavorano, con ovvie negative conseguenze per tutta la famiglia. Si è pensato allora di puntare sull'arte del cucito e del ricamo, già molto praticata, e di portare il lavoro direttamente nelle loro ger, consegnando a loro il materiale; a lavoro ultimato esse vengono al nostro centro, dove noi compriamo ciò che hanno realizzato (astucci, borse di varia misura, oggetti in stoffa per la casa), contando sulla possibilità di rivendere, soprattutto all'estero, e così ricavare i fondi necessari per gestire il progetto e sostenere queste famiglie povere".

Infine, "da almeno due anni vorremmo aprire un Centro per il dialogo interreligioso e la ricerca culturale. Siamo in attesa di risposta, ma sappiamo che qui i tempi sono relativi. Rimaniamo in attesa, con pazienza". 

 

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