15/09/2009, 00.00
ISRAELE-PALESTINA
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Non è solo colpa degli “altri” se Gerusalemme e Palestina si svuotano dei cristiani

di Fady Noun
Mons. Rafic Khoury, del Patriarcato di Gerusalemme, in una serie di conferenza in Libano evidenzia la necessità dell’unità dei cristiani per fermare il loro esodo dalla Terra Santa. Ma spesso unità ed ecumenismo sono solo affermazioni di principio, senza risvolti concreti. Si impone la necessità di una nuova evangelizzazione dei palestinesi cristiani.
Beirut (AsiaNews) – L’“emorragia” dei cristiani dal Medio Oriente, e in particolare dalla Terra Santa, non è colpa solo degli “altri”, ma anche dei cristiani stessi, che non capiscono la necessità della loro unità, perché “in Oriente o saremo uniti o non saremo affatto”. La frase pronunciata nel 1992 della prima assemblea dei patriarchi cattolici d’Oriente è tornata nelle riflessioni di mons. Rafic Khoury, del Patriarcato latino di Gerusalemme, docente all’Università cattolica di Betlemme, in questi giorni in Libano su invito della Commissione episcopale per il dialogo islamo-cristiano dell’Assemblea dei patriarchi e vescovi cattolici del Libano (APECL).
 
In una serie di conferenze destinate a sensibilizzare sulla sfida lanciata alla presenza cristiana in Palestina e negli altri Paesi del mondo arabo, Libano compreso, mons. Khoury ha evidenziato come non restino in Cisgiordania sono 50mila cristiani, mentre un’altra decina di migliaia è a Gerusalemme. I cristiani di Palestina, ha detto in un’intervista a L’Orient Le Jour, rappresentano solo l’1,6% dei 3,6 milioni di abitanti, laddove alla metà del secolo scorso, erano circa il 15%.
 
Lo stesso mons. Khouury è di Taybe – l’Efraim del capitolo 11 del Vangelo di Giovanni – un villaggio interamente cristiano vicino Ramallah, che oggi conta 1400 abitanti e 14mila emigrati. Il prelato, peraltro, ha tre passaporti - palestinese, giordano e vaticano – per poter circolare liberamente nella sua terra natale.
 
L’emigrazione, spiega mons. Khoury, è una questione di stabilità, in quanto è direttamente legata al clima di instabilità nel quale vivono i palestinesi. Ciò provoca due tipi di esodo: esterno, verso i Paesi occidentali, e interno. Quest’ultimo è un movimento di ripiegamento geografico dei cristiani sulle proprie comunità. Ciò trae origine in parte da ragioni pratiche. Le restrizioni alla circolazione create da Israele, hanno drammaticamente separato i palestinesi: servizi pubblici, scuole, ospedali, abitazioni sono spesso divise da un lato e dall’altro del Muro di separazione. Gerusalemme è staccata dalla Cisgiordania e non è raggiungibile che con dei lasciapassare che bisogna continuamente rinnovare. I posti di blocco fissi e volanti dell’esercito israeliano frammentano il Paese, il che rende gli spostamenti penosi e aleatori.
 
Sull’instabilità politica e a volte militare nella quale vivono i palestinesi si innestano ragioni ideologiche e religiose. Le provocano i fondamentalisti di ogni tipo: musulmani, sionisti e anche cristiani. Questi ultimi sono quei protestanti che appoggiano apertamente il sionismo e le colonie, nella ingenua convinzione di affrettare in tal modo la conversione di Israele al cristianesimo.
 
Le responsabilità dei cristiani
 
Ma per i nostri mali non si possono sempre chiamare in causa “gli altri”: mons. Khoury evidenzia che in parte la risposta all’esodo dei cristiani e nelle loro stesse mani. Come ogni cristiano, egli si è sentito umiliato, a Pasqua, vedendo in televisione allo scontro oltraggioso tra i monaci greci e armeni davanti alla cappella della Risurrezione. Ai suoi occhi, va considerata prioritaria la preoccupazione per l’unità dei cristiani, certo dei cattolici tra loro, ma anche tra cattolici e ortodossi. E ricorda, in proposito, l’affermazione dei patriarchi e dei vescovi cattolici d’Oriente: “o saremo uniti o non saremo affatto”.
 
Ma ciò che i patriarchi fanno in favore di tale unità, oltre ad affermarne la necessità, è tutt’altra cosa. In pratica poca cosa, a parte qualche misero progetto di abitazioni, che non argina che in minima parte l’esodo. Di fatto, ognuno continua a darsi da fare per la sua parrocchia, sordo alle pressioni dei fedeli, notoriamente favorevoli all’unificazione della data della Pasqua. Si parla, pudicamente, di mancanza di solidarietà. Ma è mancanza di carità.
 
« I cristiani non capiscono le divisioni dei cristiani”, afferma mons. Khoury, sostenendo che in campo ecumenico servirebbe una via di mezzo tra l’impazienza dei fedeli e le lentezze dalla gerarchia. Come è possibile, del resto, non essere addolorati vedendo come, in nome di “ferite” del passato, ortodossi e cattolici compromettano il loro futuro?
Mons. Khoury afferma poi la necessità di una nuova evangelizzazione dei cristiani di Palestina, o dei palestinesi cristiani, un passo che deve aprire i cristiani alla dimensione missionaria della loro presenza in terra arabo-musulmana, della quale costituiscono una delle componenti più antiche e più nobili. E perché questa coscienza missionaria dovrebbe essere privilegio dei “kibboutzniks” e perché non accettare volontariamente qualche sacrificio, se ciò può aiutare alla diffusione del cristianesimo? E ovviamente un mondo arabo senza cristiani non sarebbe lo stesso.
 
Per arginare l’onda dell’emigrazione, infine, un ruolo può essere giocato dalle potenze, grandi e meno grandi. Senza entrare troppo sul terreno politico, mons. Khoury rileva che la diplomazia del Vaticano potrebbe essere più rigorosa verso lo Stato di Israele. La Santa Sede, spiega, ha riconosciuto ufficialmente Israele, senza ottenere in cambio le facilitazioni che aveva il diritto di aspettarsi; quello Stato crea grandi difficoltà a concedere i visti a sacerdoti e collaboratori che vengono dall’Occidente e dei quali la Chiesa locale ha grande bisogno per poter compiere la sua missione.
 
Tornando al tema della nuova evagelizzazione,, mons. Khoury ricorda che nel loro quarto messaggio ai fedeli, i patriarchi cattolici d’Oriente li hanno chiamati ad essere “meno comunità e più Chiesa”, meno ripiegati e più aperti. Una vittoria della Chiesa sulle “comunità” sarà indispensabile, se i cristiani vogliono restar enlla terra araba.
 
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