15/07/2011, 00.00
PAKISTAN
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Punjab: a scuola d’inglese per salvare i ragazzi di strada

di John Maxwell
P. John Maxwell ha fondato la St. John Education System, una scuola d’inglese per ragazzi di strada. Cinque anni fa, l’incontro con Daud, un bambino venditore di giornali. Il racconto del sacerdote su come tutto è iniziato.
Islamabad (AsiaNews) – “Non abbiamo più scuse: se soltanto l’un per cento di noi si occupasse di un ragazzo di strada, in 10 anni avremmo 1,8 milioni di persone istruite in più. E dieci anni volano: pensate se il due per cento di noi si mobilitasse…”. Parla così è p. John Maxwell, fondatore della St. John Education System, una scuola d’inglese per ragazzi di strada nel distretto di Layyah, provincia del Punjab. Bambini che chiedono l’elemosina, puliscono le strade, o vendono giornali ai semafori: il sacerdote ha creato la scuola per offrire loro un’alternativa possibile alla strada, partendo proprio dall’istruzione. Nel marzo di quest’anno, la Pakistan Education Task Force ha pubblicato un rapporto sull’Emergenza educativa in Pakistan, dove emerge un tasso di scolarizzazione bassissimo per via di politiche governative inefficaci. Ma più dell’85% di ragazzi intervistati desidera “un miglior grado di istruzione”, e oltre il 90% ritiene che l’istruzione serva a “formare esseri umani migliori”. Di seguito, il racconto di p. Maxwell ad AsiaNews, sull’incontro con chi ha “ispirato” la nascita della St. John Education System. [Al problema dell’educazione in Pakistan, AsiaNews ha dedicato il dossier “L’educazione può fermare i talebani in Pakistan”].

Tutto è iniziato cinque anni fa, con un ragazzo di nome Daud, David in inglese. Ero in viaggio verso la curia di Lahore e quando mi sono fermato al semaforo il solito nugolo di ragazzini mendicanti, lavavetri e venditori di giornali è venuto incontro alla mia auto. Uno dei venditori di giornali, Daud, mi ha chiesto un passaggio fino all’incrocio successivo. Io ero irritato dalla confusione intorno a me, così ho deciso di ignorare quel ragazzo così mingherlino. Ma invece di allontanarsi, egli con coraggio ha girato intorno alla macchina, si è fermato di fronte guardandomi fisso negli occhi e ha iniziato a ballare una break dance di sfida. Quand’è scattato il verde, ho messo in moto e ho proseguito il mio viaggio.

Circa una settimana dopo, dovevo andare a prendere alla stazione degli autobus un mio collega e ho rifatto la stessa strada. Mi sono fermato di nuovo a quel semaforo ed è riapparso Daud, questa volta da solo. Con gentilezza mi ha chiesto se potevo dargli un passaggio all’incrocio successivo: l’ho fatto salire. Sembrava stanco, stravolto, un po’ disorientato. “Cos’è successo? Stanco di cantare e ballare?” gli ho chiesto, ma mi ha guardato confuso. Non aveva capito. Allora ho mimato il ballo che aveva fatto la settimana prima: gli ho strappato una risata incontrollata, e si è calmato. Quando siamo arrivati all’incrocio, gli ho proposto di comprare tutti i giornali che aveva, se mi avesse accompagnato alla stazione degli autobus. È stato come se l’intero peso del mondo fosse scivolato via dalle piccole spalle di Daud, e al suo posto ci fosse solo una gioia piena. Ha accettato, ha chiuso la portiera, e siamo andati avanti. La conversazione, come si può immaginare, è stata molto limitata, ma la soddisfazione immensa.

Arrivati alla stazione degli autobus, Daud è corso ad aiutare il mio amico e tutti e tre insieme ci siamo diretti verso l’episcopio. Il ragazzo è rimasto in silenzio per tutto il viaggio: noi parlavano in inglese, senza pensare che seduto alle nostre spalle c’era qualcuno che non capiva nulla. Dopo dieci minuti, il mio amico gli ha chiesto dove viveva, cosa facevano i suoi genitori, ma Daud ha risposto a mezza bocca. Ogni tanto gettavo un’occhiata allo specchietto retrovisore, lo vedevo con lo sguardo fisso su un punto, come se stesse sforzandosi di capire cosa noi altri stessimo dicendo. Una volta a destinazione, come avevo promesso ho comprato tutti i giornali e gli ho chiesto se potevamo rivederci il giorno successivo. Era d’accordo, ha preso i soldi ed è andato via.

L’indomani mi sono presentato al solito semaforo, portandogli un fagotto con dei vestiti più o meno della sua taglia. Daud era lì ad aspettarmi, ma senza giornali. “È stata una buona giornata, li hai già venduti tutti” gli ho chiesto. Ma lui si è seduto in macchina, evidentemente insoddisfatto. Ricorderò sempre la sua risposta, perché mi colse davvero di sorpresa: “Non voglio vendere giornali. Io voglio imparare l’inglese”.

Non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore. Ero in partenza per la Gran Bretagna in due settimane, per un seminario, e sarei stato via a lungo. Avrei potuto affidarlo a qualche famiglia, ma all’epoca questa possibilità non mi venne in mente. Siamo andati al bazaar più vicino e ho comprato alcuni libri d’inglese per la scuola elementare. Ma c’era comunque un problema: chi gli avrebbe dato qualche lezione? Gli spiegai che dovevo partire, poi gli tenni una lezione di un’ora. Dopo avergli consegnato il fagotto che avevo preparato per lui e i libri, strappai un foglio dalla mia agenda e gli scrissi una lettera in inglese. Sullo stesso pezzo di carta, appuntai il mio indirizzo e-mail. Quando ci salutammo, lui sembrava molto triste. Forse, io mi sentivo persino peggio.

Cinque anni dopo, ho ricevuto un’e-mail da Daud, per la prima volta. In inglese: ce l’aveva fatta, e la sua determinazione a imparare un’altra lingua ha dell’incredibile.

La storia di Daud è la prova del fatto che la nostra gioventù è assetata di sapere. Purtroppo, i nostri leader non hanno mai offerto le infrastrutture necessarie… ma è storia vecchia adesso. Io non ho potuto fare molto per Daud, lui si è “fatto da solo”. Ma l’incontro con lui mi ha ispirato a fondare la St. John Education System, che vuole espandersi in tutto il Pakistan ed educare i bambini che non hanno molte possibilità, ma vogliono studiare. Con quest’obiettivo, stiamo lottando per educare i bambini come Daud, che hanno una sola possibilità per cambiare la loro vita: studiare.

(Ha collaborato Jibran Khan)
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