28/01/2008, 00.00
IRAQ
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Solidarietà e donazioni non bastano, alla Chiesa irachena servono progetti concreti

di Louis Sako*
Invitato da “Aiuto alla Chiesa che soffre”, l’arcivescovo caldeo di Kirkuk ha partecipato la settimana scorsa ad incontri in Germania per sensibilizzare l’Europa sui problemi dei cristiani in Iraq. Egli spiega che per contenere il “mortale esodo” della comunità, prima di parole e offerte economiche, serve un serio impegno della stessa Chiesa irachena: riorganizzazione interna, negoziati con il governo curdo, nuovo impulso alla missione. “Senza paura!”.
Kirkuk (AsiaNews) – Gli attentati che hanno colpito obiettivi cristiani a Baghdad, Mosul e Kirkuk questo mese rappresentano un preciso messaggio, nascondono domande dirette: “Con chi sono schierati i cristiani? Cosa vogliono? Che posizione politica hanno? Che mire sulla piana di Ninive?”. Dopo le bombe esplose tra il 6 e il 17 gennaio,  il tema della sopravvivenza della Chiesa assiro-caldea in Iraq è tornato sotto i riflettori di media e opinione pubblica occidentale. Grande solidarietà ci arriva dall’occidente, denaro è messo a disposizione dal governo del Kurdistan. Ma manca una prospettiva. Anche perché noi stessi leader religiosi iracheni non l’abbiamo offerta. Non abbiamo detto al mondo cosa ci aspettiamo e di cosa abbiamo bisogno!
 
Il mortale esodo che affligge la nostra comunità non potrà essere evitato, finché la  Chiesa irachena in prima persona non prenderà una chiara posizione nel quadro politico e non studierà un coraggioso progetto pastorale. Il futuro della Chiesa caldea-assira è in Iraq: qui è la sua terra, qui si è formata la sua storia e il suo patrimonio, parte importante del più vasto patrimonio  cristiano unversale. Chiesa vuol dire missione. Una Chiesa in diaspora perde la sua identità. La presenza cristiana nel corso della storia ha contribuito molto allo sviluppo dell’Iraq. I cristiani sono stati e possono continuare ad essere anche oggi strumento di dialogo, convivenza pacifica e collaborazione con i fratelli musulmani. Svuotare il Paese di questa comunità è un peccato mortale.
 
La domanda che necessita una risposta urgente e decisa è: “Come aiutare i cristiani iracheni?”. La nostra Chiesa deve riorganizzarsi e aggiornare non solo la sua struttura, ma anche il suo discorso. Per sopravvivere a questi tempi ci serve una Chiesa forte, con una chiara visione pastorale e “politica”, con precisi piani non solo per proteggere i suoi fedeli, ma anche per favorire la riconciliazione.
 
Quasi la metà dei cristiani, religiosi e laici, vivono come rifugiati nei Paesi confinanti. E altri continuano a lasciare le loro case. Un primo passo potrebbe essere aiutare questa gente a fare ritorno ai loro villaggi di origine nel più sicuro nord, piuttosto che incentivarne la fuoriuscita. Sarebbero così sottratti alla misera vita che viene loro offerta in Siria o in Giordania e limiterebbe il loro esodo verso ovest. A tal fine è indispensabile negoziare con il governo regionale del Kurdistan iracheno per creare posti di lavoro, edificare abitazioni e studiare progetti mirati a breve e lunga scadenza. Il ministro dell’Economia del Kurdistan, il cristiano Sargis Aghajan, stanzia ingenti somme per la comunità. Alcuni dicono il 3 per cento degli introiti dell’industria petrolifera. L’Olanda ha offerto 6 milioni di euro. Gli Stati Uniti 10 milioni di dollari. Con questi soldi si possono creare scuole, dispensari, strade, istituti tecnici, scuole per infermieri. Mandare religiosi e religiose per aprire missioni. Non dobbiamo avere paura!
* Arcivescovo caldeo di Kirkuk
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