04/01/2007, 00.00
LIBANO
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Vescovi maroniti: per la crisi libanese servono “soluzioni nuove”

di Paul Dakiki
Secondo i presuli “il nodo nevralgico” dello scontro è la formazione del tribunale internazionale. Esponenti di Hezbollah hanno incontrato il re saudita. Il Consiglio superiore sciita invita a tornare al “tavolo del dialogo”.
Beirut (AsiaNews) – Va trovata “un’altra soluzione” per la formazione di un governo libanese, rispetto a quello di “unità nazionale” del quale si parla inutilmente da mesi, mentre la protesta dell’opposizione che dal primo dicembre blocca il centro di Beirut ha provocato una “catastrofe economica” ad un Paese già provato dalla guerra. Nuovo pressante intervento dei vescovi maroniti che, al termine della loro assemblea mensile, in un comunicato denunciano il fatto che il vero nodo della crisi libanese sembra essere la formazione del tribunale internazionale sull’assassinio dell’ex premier Rafic Hariri ed esortano i libanesi a trovare “dall’interno” una soluzione ai loro problemi.
 
L’attenzione politica, al momento, è centrata sulla visita compiuta ieri a Beirut dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, che sembra voler tentare una sua mediazione, e soprattutto sulla notizia, diffusa dal quotidiano al-Akhbar e non smentita, di una visita di due esponenti di Hezbollah in Arabia saudita. Il numero due del Partito di Dio Naim Kassem e l’ex ministro Mohammad Fneich avrebbero discusso con re Abdullah.Un incontro senza precedenti, avvenuto il 26 dicembre e del quale le fonti ufficiali saudite non hanno dato notizia, tra il gruppo sostenuto dall’Iran sciita ed un alleato storico - forse il principale del mondo arabo - dei sunniti libanesi, che però, secondo la stessa fonte, non avrebbe portato a risultati concreti, almeno nell’immediato, al di là di “affermazioni di disponibilità”.

Quanto ad Erdogan – che nella sua visita ha incontrato il presidente della Repubblica Emile Lahoud, il primo ministro Fouad Siniora ed il presidente del Parlamento Nabih Berri – se, secondo il libanese L’Orient Le Jour si è sforzato di mostrare equidistanza tra le parti, il turco Zaman, riportandone le parole, gli attribuisce gli appellativi di “mio amico” e “mio caro amico” rivolti a Siniora.
 
Una situazione che, nel complesso, appare dunque ancora ferma e che motiva l’intervento dell’episcopato maronita. Riuniti a Bkerke sotto la presidenza del patriarca Nasrallah Sfeir, i vescovi rilevano che “le formule di governo delle quali si parla non vedranno mai probabilmente la luce, a causa delle difficoltà inestricabili con le quali urtano”. “Sembra – aggiungono – che il tribunale internazionale sia il nodo nevralgico della crisi libanese, con una parte – scrivono in proposito – che insiste per la sua formazione, perché sia messa fine alla serie di assassinii che hanno provocato la fine del meglio dei suoi uomini politici, mentre altri, in maggioranza non libanesi, sperano di comprometterne la formazione e passare oltre, nel timore che la verità nuoccia ai loro interessi”.
 
L’instabilità, rilevano i presuli, potrebbe spingere i Paesi disposti ad aiutare il Libano a fare un passo indietro, proprio mentre si avvicina l’incontro dei Paesi donatori, in programma per il 25 a Parigi. “E’ per questo che è dall’interno che deve venire una iniziativa di salvezza, piuttosto che dall’esterno, perché, come dice il proverbio, ‘nessuno ti serve mai meglio di te stesso’. La paralisi delle istituzioni costituzionali – presidenza della Repubblica, governo e parlamento – che si accusano reciprocamente di illegittimità, esige che si cerchi un’altra soluzione” per “ricostituire un’autorità che salverà il Libano”.
 
Una sottolineatura del ruolo che le autorità religiose possono giocare nella soluzione della crisi libanese è venuta anche dal Consiglio superiore sciita, che si è anche espresso a favore della ripresa del dialogo. Al termine di una riunione da lui presieduta, cheikh Abdel Amir Kabalan, ha sostenuto che la crisi “è politica e non deve avere risvolti religiosi”. Pur sostenendo che per superarla occorre un governo di unità nazionale e la formazione di un tribunale internazionale, lo statuto del quale, però, deve essere stabilito “di comune accordo” – come chiede l’opposizione – il Consiglio superiore sciita chiede di “tornare al tavolo del dialogo” e di “respingere tutte le tutele e ingerenza, da qualsiasi parte provengano”.
 
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