03/11/2010, 00.00
STATI UNITI - CINA
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Wei Jingsheng: dopo le elezioni, gli Usa saranno più duri con Pechino

di Wei Jingsheng
Il grande dissidente cinese analizza la campagna elettorale per midterm, molto incentrata sulla “questione Cina”: il connubio fra capitalisti americani e cinesi ha infatti distrutto l’economia e l’occupazione statunitense. Gli americani lo hanno capito, e hanno voluto punire i loro rappresentanti.

Washington (AsiaNews) – Con queste elezioni “l’America sarà sempre più dura con la Cina. Il popolo ha capito che è il connubio fra capitalisti cinesi e americani a distruggere l’economia interna, e vogliono punire i loro rappresentanti”. È la tesi di Wei Jingsheng, che in un’intervista spiega il significato di queste elezioni.

Nel corso di queste ultime settimane, la campagna elettorale per le elezioni di midterm si è infuocata. L’impegno dei candidati è stato intenso, sia dal punto di vista fisico che di immagine. Dato che la preoccupazione maggiore del corpo elettorale riguarda i temi dell’economia e dell’occupazione, è normale che la Cina sia divenuta un tema chiave fra i vari concorrenti. Harry Reid, per la sua ri-elezione al Senato, ha pubblicato immagini di lavoratori cinesi ed ha attaccato il suo rivale, Sharron Angle, che a suo dire «li sostiene, tramite il sostegno all’eliminazione delle tasse sulle imprese».

Anche il candidato democratico dell’Ohio, Zack Space, ha accusato il suo oppositore Bob Gibbs di «sostenere politiche di libero mercato che di fatto spediscono i posti di lavoro del nostro Stato in Cina». In California, la Cina è divenuta un fulcro per quasi tutti i dibattiti politici: sia quelli per il governatore che per il Senato. Dato che entrambe le candidate repubblicane hanno un passato da dirigenti di azienda, i democratici le hanno accusate di aver diversificato e delocalizzato la loro produzione in Asia, bruciando posti di lavoro.

Anche i repubblicani hanno attaccato. Un gruppo conservatore noto come “Cittadini contrari agli sprechi del governo” ha lanciato una pubblicità nota come “il professore cinese”. Si vede una lezione di economia a Pechino, nel 2030, e un docente cinese che spiega come «le grandi potenze del secolo scorso siano crollate perché hanno rinnegato i principi liberali e di libero commercio che le avevano rese grandi». Ma questo dibattito non è nuovo; al contrario, le sue radici affondano in tempi lontani nella storia americana.

In passato, i politici cinesi e alcuni esponenti della politica americana si sono uniti per usare il lavoro a basso costo tipico della Cina e il mercato americano – caratterizzato da prezzi molto alti – al fine di guadagnare molto. Per più di un decennio, i capitalisti americani e quelli cinesi, le imprese statali, le lobby, i dirigenti comunisti e tutti coloro che gli ruotano intorno hanno guadagnato cifre enormi. Ma i salari dei lavoratori cinesi non sono cresciuti e il mercato interno è ancora molto piccolo.

Nel frattempo, molti americani hanno perso il proprio posto. Quindi, la media della popolazione delle due nazioni non ha avuto alcun beneficio da questo patto. Lo schema è il cosiddetto “modello cinese”, che parte dall’interesse personale e da quello di piccoli gruppi. E la colpa è anche dei politici americani: molti di loro hanno sostenuto l’ingresso della Cina nel gruppo delle “nazioni favorite”, permettendo ai prodotti cinesi di entrare liberamente nel mercato americano. Ma la situazione non è bilaterale, non parliamo di libero commercio. Nei fatti, gli Stati Uniti hanno offerto alla Cina un trattamento preferenziale; Pechino non l’ha fatto, dato che non ha un mercato aperto da offrire alla controparte.

Il risultato? Gli americani hanno perso il lavoro e in Cina è aumentata l’inflazione, riducendo ancora di più il potere d’acquisto dei lavoratori cinesi. Il governo centrale e autocratico di Pechino, guidato dal Partito comunista, non permetterà l’aumento dei salari interni; temono il crollo della crescita economica. Non permetterà la creazione di sindacati indipendenti. Non permetterà ai lavoratori di avvicinarsi ai loro diritti. In questo modo, i capitalisti di entrambi i Paesi possono comprare a basso costo in Cina e rivendere in America a prezzo maggiorato, guadagnando così enormi profitti. In passato, i comunisti accusavano i capitalisti americani di mettere le mani su questi guadagni; oggi non si vergognano neanche più di questo modo di fare, che per loro è “capitalismo socialista”. In questo modo, inoltre, si è verificato un passo ulteriore: con questi profitti, i capitalisti cinesi hanno iniziato a comprarsi i politici americani e occidentali in genere.

A fronte di tutto questo i cinesi non possono fare molto, dato che non hanno il diritto di parlare. Ma gli americani possono fare qualcosa: possono esprimere il proprio disappunto, se sono in disaccordo, con la classe politica. Ed è quello che hanno fatto con questa elezione. Oggi, la popolazione ha capito che è la squilibrata bilancia commerciale fra Stati Uniti e Cina a causare il crollo dell’economia e la disoccupazione. In passato i politici hanno cercato di nascondere questa correlazione, ma oggi il popolo ne ha coscienza. E quindi, come sempre, chi comanda cerca di scaricare la responsabilità sugli altri.

Ma la responsabilità, in questo caso specifico, è di entrambi i partiti in gara. E come risultato abbiamo visto quanto sia cresciuto il movimento dei Tea Party. Anche se non è un passo formale nella politica americana, è un passo importante: dopo che la gente ha iniziato a capire che cosa hanno fatto i politici, hanno iniziato a organizzarsi in un’altra maniera. Resta poi la questione dello yuan, che il governo cinese non vuole rivalutare e che Washington, invece, insiste per mettere sul mercato: tutti i problemi già esposti sono importanti, ma questo è decisivo. Le elezioni hanno sottolineato questo problema: con il voto, ci sarà un cambiamento importante nella politica dell’America nei confronti della Cina: dalla Casa Bianca al Congresso, saranno tutti più duri con Pechino.

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