Roma (AsiaNews) - Nella prefazione ai due volumi sulla sua "opera omnia" di imminente pubblicazione in Germania, Benedetto XVI, rievoca la "giornata spendida" dell'11 ottobre 1962, tornando a parlare delle attese generate dal Concilio Vaticano II in una Chiesa che soffriva il confronto con la modernità.
Nel bilancio, che a cinquant'anni dall'apertura di quell'evento il Pontefice si arrischia a tracciare, si introduce un giudizio qualificante su uno dei documenti più discussi e sicuramente più innovativi approvati dall'assemblea conciliare. Si tratta di quello che viene definito un "documento minore", la Dignitatis Humanae, la dichiarazione sulla libertà religiosa approvata dai padri conciliari, non senza strappi e tensioni, il 7 dicembre 1965, nell'ultima sessione utile.
Da subito ne veniva riconosciuta la portata: fu lo stesso Paolo VI a definirlo "uno dei più grandi documenti del Concilio", e a distanza di decenni, il suo successore, Benedetto XVI, lo considera insieme alla Nostra Aetate, uno dei banchi di prova dell'incontro con i grandi temi della modernità. La sua carica innovativa nasceva dal modo in cui, per la prima volta, si affrontava uno dei problemi con cui la Chiesa si misurava da secoli: il rapporto tra Verità e libertà. La riflessione maturata nell'aula assembleare è ancora oggi uno dei punti di approdo più avanzati raggiunti dai padri conciliari.
La dottrina sulla libertà religiosa definisce non solo la presenza di moltissimi cristiani nel mondo, ma costituisce anche uno dei cardini del magistero di Ratzinger, che su questo principio ha impostato non solo il dialogo con le altre fedi, ma anche quello con i non credenti. La modernità del documento conciliare è testata da quanto accade in molte zone del pianeta, dove la libertà di professare la propria fede è messa quotidianamente in discussione. Non solo, sempre più spesso proprio su questo principio irrinunciabile o "non negoziabile" si misura il grado di democrazia e civiltà di un Paese. Dall'Iraq al Pakistan, dalla Cina all'isola di Cuba, si fa appello ad un diritto che trova proprio nell'umanesimo cristiano il suo fondamento ultimo.
Tornando a quanto avvenne nei tre anni di lavori conciliari sulla Dignitatis Humanae può bastare la ricostruzione sintetica di Benedetto XVI: "La dottrina della tolleranza, così come era stata elaborata nel dettagli da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all'evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno. Si trattava della libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell'uomo. Dalle sue ragioni più intime, una tale concezione non poteva restare estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto". Il riferimento del Pontefice alla situazione del cristianesimo nell'Impero romano non è casuale, permette di rintracciare il filo della continuità che lega le stagioni della Chiesa e allo stesso tempo rivendica l'originalità della posizione cristiana nell'introdurre il principio della libertà di religione. Insomma introduce nella modernità un'interpretazione del diritto alla libertà che non è in contraddizione con l'espressione pubblica della fede.
E' indubbio che il magistero ottocentesco individuava nella dignità della coscienza una forma pericolosissima di relativismo, una concessione all'errore con cui non si poteva venire a patti. Il superamento di questa posizione all'interno dell'aula conciliare avvenne non senza fatiche ma portò ad un documento per certi versi "rivoluzionario". Afferma Sandro Magister "la Dignitatis Humanae ha mostrato come la chiesa è in grado di riflettere su punti controversi, assumendo posizioni coraggiose, persino di rottura, semplicemente ritornando a quella che è la sua natura originaria. In questo caso mentre nei secoli precendenti al Concilio il cardine era sostanzialmente il diritto che veniva attribuito alla Verità, per cui chi la rifiutava cadeva nell'errore e veniva inesorabilmente pensato al di fuori del comune alfabeto del vivere civile (stato confessionale), nel documento sulla libertà religiosa al primo posto passa la persona in tutta la sua concretezza, la persona libera di scegliere, persino l'errore. Ed è questa libertà che la chiesa chiede allo stato di garantire (stato moderno)".
Nella ricostruzione offerta dal dibattito dallo storico Alberto Melloni la genesi del documento si deve all'incontro di due diverse visioni ed esperienze ecclesiali, quella statunitense incarnata dal gesuita Murray, che rifacendosi all'esempio costituzionale statunitense reclamava il diritto di ogni individuo a ricercare la verità e quella dei vescovi dell'est che vivevano esperienze di persecuzione o di repressione sotto ideologie materialiste. Non è un caso che uno degli interventi decisivi nel condizionare gli umori dell'assemblea sul concetto di libertà umana, civile e religiosa, fu quello dell'allora arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, paladino dei diritti umani e della dignità della persona nei suoi oltre 22 anni di pontificato. L'alleanza tra queste due componenti permise di riaffermare con decisione che la "dignità dell'uomo è custodita nell'incontro tra la Verità di Dio e la coscienza dell'uomo, tra la chiamata divina e la libertà umana".
La libertà religiosa viene riconosciuta come elemento dinamico della società, la Chiesa continua a sostenere la necessità di cercare e aderire alla Verità, ma insiste - spiega il card. George Cottier, testimone vivente del Concilio - che "sia un problema della coscienza e di Dio e che in nessun modo lo Stato possa rivendicare una qualche competenza sull'interiorità sacrale della persona".
La soluzione "giuridico-politica" del problema portò all'approvazione del documento, anche se in extremis, lanciando la Chiesa più avanti della modernità su un tema complesso. Certo in agguato rimasero alcuni temi irrisolti, come la possibile tentazione relativista e l'indifferentismo religioso nel proclamare la libertà di credere. Non è un caso che il vescovo scismatico Marcel Lefebvre, campione del tradizionalismo cattolico, si espresse con un voto contrario sulla dichiarazione Dignitatis Humanae. Ma oggi la vita e la fede di milioni di cristiani e credenti nel mondo è garantita dalla visione profetica di chi votò a favore.